Il prossimo tuo

Il prossimo tuo

Discutere di conflitti etnici e religiosi, argomento difficilissimo, necessita di alcune premesse: se ogni conflitto abbia base etnica o religiosa; se i conflitti siano evitabili; se ne sia possibile l’eliminazione.

I conflitti dell’antichità sembrano (al moderno osservatore) basati piuttosto su motivi esistenziali o economici anche se, a ben guardare, razzie o guerre di conquista avevano come oggetto terre, schiavi e bottini da sottrarre a popolazioni “altre”, anche se affini.

La volontà di sopraffare – impulso apparentemente ineliminabile nella vita sociale – sembra tuttavia richiedere una giustificazione “etica”: se non siano “infedeli” o non appartengano ad etnie diverse gli altri vanno aggrediti e allontanati comunque – a scopo “preventivo” – per non restarne sopraffatti o assimilati. La semplice “alterità” aggiunge fascino al singolo individuo, ma induce a sottrargli i diritti basilari e a temerne, di conseguenza, le minacce. Se gli “altri” godessero dei nostri medesimi diritti, smetterebbero di rappresentare un pericolo? La pura razionalità spinge verso una risposta affermativa, ma una fantasia inconscia di espropriazione genera piuttosto il timore di rimanere sopraffatti (desiderio sessuale passivo?).

Allora le premesse per una pur limitata analisi sono: l’ineliminabilità dei conflitti anche per la loro forza aggregativa (Giovanna Martelli, parlamentare PD); la comparsa inattesa (Ivan Scalfarotto, sottosegretario al Ministero delle riforme e dei rapporti con il Parlamento); la loro indipendenza dal commercio di armi e da interessi economici (Paolo Cotta Ramusino, segretario di Pugwash); le differenze identitarie e culturali ed il settarismo religioso (idem); l’impossibilità di una loro eliminazione se non attraverso imposizioni tiranniche (idem); il peso dell’identità storico sociale (Shmuel KRON, Tel Aviv, psicoanalista); la differenze tra le culture a base famigliare (Wasim Birumi, Neve Shalom/ Wahat Al-Salem); il pregiudizio ed il razzismo inconsci (idem); l’oblio (idem); la disparità delle forze tra gruppi differenti (idem); i conflitti attivi nel pensiero sociale (idem); la fantasia sociale di onnipotenza (idem); la proiezione di pensieri paranoici verso gli altri (idem); la riproposizione dei riti formativi collettivi, finalizzati al contrasto dell’angoscia della morte (Raffaele Bracalenti, IPRS); la precedenza del reato sulla legge (idem); la carica di aggressività depositata nelle religioni (idem); la mancanza di democrazia e il rifiuto della psicoterapia (Sergio Benvenuto, Giornale Europeo di Psicoanalisi); il mistero collegato al processo di civilizzazione (Chernoglazov, Università Statale di St. Petersburg); il deterioramento culturale generato dalla globalizzazione (idem).

Elementi correttivi o preventivi sono: la revisione e la contraddizione della cultura originaria propria (Birumi), in particolare di quella religiosa (Bracalenti); una maggiore comprensione delle identità attraverso la consapevolezza delle somiglianze (Chernoglazov).

Già solo nelle premesse – parziali e legate alle culture di provenienza di ogni relatore – si evince la difficoltà improba proposta dall’argomento: è palese il fatto che, insieme alla ineliminabilità dei conflitti (etnici o di qualsiasi categoria), non si capisca come prevenirli (in quanto scaturiti da una molteplicità di cause) né come estinguerli (per gli stessi motivi).

Il problema è analogo a quello delle mafie o della povertà: sono sottoprodotti inevitabili delle relazioni sociali e se la loro esistenza conviene a troppi individui, gruppi sociali e persino governi, tuttavia bisogna persistere nel loro contrasto. Che senso assume una lotta che è impossibile vincere? Il significato dello star bene: se non lottassimo vivremmo peggio. Non posso concludere senza proporre un pistolotto mistico moraleggiante, utilizzando due dichiarazioni che ritengo assolutamente valide aldilà del tempo, dei luoghi e delle culture:

–          Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito. (I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1974, pagg. 197-198);

–          Amerai il prossimo tuo come te stesso (Matteo 22,39)

pds

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