Sarà solo la fine del mondo
L’autore di questo libro si chiama Liv Ferracchiati ma, per un certo periodo, ha preferito usare uno pseudonimo maschile, forse proprio quello indicato nel romanzo: Guglielmo Leon. Si capisce che il nome Liv possiede qualcosa di astratto, almeno nella lingua italiana: può essere la radice di Livia oppure Livio; lascia l’indeterminazione, la stessa che prova il protagonista del romanzo che si autodefinisce transgender, cioè transitato nel genere sessuale.
Attualmente ancora accade una cosa strana: se andate a cercare il significato di quella parola nel dizionario Treccani leggerete “Persona affetta da disturbo dell’identità di genere, la cui identità sessuale corporea non corrisponde al vissuto psicologico di identità di genere maschile o femminile e che persegue l’obiettivo di un cambiamento medico-chirurgico del proprio corpo”; definizione errata per le affermazioni iniziale e finale – disturbo dell’identità e cambiamento medico-chirurgico del proprio corpo – perché fa di ogni erba un fascio.
Già solo l’idea transgender immerge nella confusione: emotiva, razionale e affettiva per il protagonista del romanzo; linguistica per il lettore ingenuo. Ed è proprio all’ingenuo lettore che Liv si rivolge, lo definisce, dialoga con lui. La confusione linguistica riguarda il significante/significato delle parole: travestito, transessuale, transgender. Nella tradizione culturale e linguistica nostrana si deve partire dal termine frocio o femminiello per intendere un maschio che si atteggia in modalità di comportamento femminei e, talvolta, si traveste con abiti femminili; e dal termine lesbica per intendere una donna che si atteggia da maschio e può indossare abiti maschili. A rigore il lesbismo rappresenta l’omosessualità femminile e non avrebbe nulla a che fare con la necessità di fingersi maschio. Comunque, il travestitismo è una specie di recita la cui finalità è salvare il principio eterosessuale, in un rapporto fisico tra rappresentanti dei due sessi cosiddetti “biologici”.
L’aggettivo transessuale intende qualcosa di più radicale del travestitismo, con un passaggio della persona dal sesso anagrafico al sesso cosiddetto opposto, mediante intervento chirurgico e terapia ormonale.
Il termine transgender è riferito ad un individuo il cui sentire sessuale e affettivo non corrisponde al genere anagrafico; non è detto che per questo voglia salvare l’eterosessualità o il cosiddetto binarismo sessuale sottoponendosi ad una operazione chirurgica ma, anzi, più spesso vuole vedere riconosciuta la sua propria peculiarità sessuale.
Uomo del futuro si definisce Liv.
La struttura stessa del libro esprime una certa confusione: si tratta di un romanzo – parzialmente autobiografico – che un po’ è anche un saggio con tanto di note critiche ma, a un certo punto, diventa una sorta di delirio utopistico. La successione dei capitoli, nominati con gli anni del calendario gregoriano, segue una cronologia che inizia dal 1984. Non so se sia casuale partire dal titolo dello strafamoso romanzo distopico, visto che il primo capitolo propone l’io narrante di un protagonista non nato, anzi nemmeno concepito.
La divisione del romanzo è in quattro fasi, come il motore a scoppio: aspirazione compressione, scoppio e scarico che invece sono scoprire, camuffare, metabolizzare, liberare. Le prime due fasi sono, per me, le più interessanti del libro sia per l’originalità della scrittura sia per la qualità e l’opportunità delle riflessioni; le ultime due esprimono un utopismo che si sganghera un po’ nel tentativo di mescolare il disagio esistenziale a quello politico a quello ambientale.
Naturalmente, data la particolare valenza sessuale degli argomenti, il romanzo non si può esimere da alcune descrizioni sostanzialmente pornografiche, sebbene non scadenti nel voyerismo che, però, contraddicendo le intenzioni dell’autore, sembrano esprimere due concetti piuttosto precisi: che i genitori lo desiderassero maschio e che egli avesse sviluppato sin da bambino una fortissima invidia del pene, sentimento di cui era così tanto consapevole da sentire l’obbligo di difendere a tutti i costi la sua corporeità femminile.
Sarà solo la fine del mondo è un romanzo sul corpo che, anche se bello e attraente, può essere percepito come inadatto: la psicoanalisi, che amalgama giustamente corpo e psiche, si pone spesso (troppo?) il problema di giustificare quanto venga percepito come inadatto esteriormente, aspirandolo verso la galassia dell’inconscio con la definizione di disturbo dell’identità o disforia di genere. Liv e molti altri e altre suggeriscono invece la lettura opposta: in entrambi i casi l’amalgama di corpo e psiche sembra scisso.
Bisogna ammettere e accettare l’idea che il fiocco rosa o azzurro, la definizione di genere maschile o femminile rispondano principalmente ad una richiesta sociale e affettiva ma, talvolta, esprimano anche una violenza impositiva che oltrepassa la questione sessuale: non più semplice desiderio sessuale, ma problema identitario.
Che il bambino sia “un perverso polimorfo” e che i desideri omosessuali coinvolgano ogni essere umano è accettato da tutti, a parte, forse qualche generale; invece spaventa una bambina che si pensa maschio (o viceversa) e nutre verso il proprio bel corpo il sentimento ambivalente di odio e amore. In questa condizione si riconosce Liv e mi fa pensare al mito di Dafne, genericamente liquidato come semplice omosessualità.
Il/la piccolo/piccola Liv si trova nello spogliatoio di maschi adulti con i piselli al vento, perché il padre gioca a tennis; ama il calcio che pratica benissimo con i maschi e si picchia a sangue con il cugino fino al sopraggiungere della maturazione sessuale con tutti i reali problemi identitari. La giovane lotta per trent’anni con il problema maschile e femminile: il nome di battesimo non è confidato ma, ad un certo punto, si concretizza l’esigenza di un’identità maschile, del nome fittizio, del ricorso al pensiero androgino prima di approdare all’idea di essere proprio come si è e di accettarla.
Il problema è risolto?
Sarà solo la fine del mondo è un’idea ampia: la fine del binarismo sessuale; la fine di una cultura sessista; ma anche la fine dell’equilibrio ambientale. Però, non la fine della cultura: Liv sente fortissima l’esigenza culturale, forse unica salvezza dei corpi e delle menti.
Liv Ferracchiati è autore e regista teatrale. Diplomato giovanissimo in regia teatrale presso la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano; nel 2017 ha vinto il premio Hystrio nuove scritture di scena con il suo testo Stabat Mater. Con il lavoro Un eschimese in Amazzonia, si è aggiudicato il premio Scenario e, nell’agosto dello stesso anno, Antonio Latella ha selezionato per la Biennale Teatro di Venezia una monografia di tre suoi lavori. Alla Biennale Teatro 2020, dalla giuria internazionale gli è stata attribuita una menzione per La tragedia è finita, Platonov riscrittura del dramma di Anton Cě chov, di cui Liv Ferracchiati è stata anche regista e interprete.