Parthenope

Parthenope

Parthenope, una delle tre sirene, era figlia di Forco, divinità marina. Si dice fosse bellissima – insieme alle due sorelle – e dotata di una voce splendida, che però non fu sufficiente per superare l’arte di Orfeo o per sedurre Ulisse. A causa di questo fallimento si suicidò, insieme alle altre due, gettandosi in mare. Il suo corpo trasportato dal mare giunse vicino alla foce del fiume Sebeto, che bagnava Napoli, nel luogo in cui ora sorge Castel Dell’Ovo. A Napoli Parthenope fu venerata come dea protettrice e le sue qualità seduttorie si trasferirono alla città che l’aveva assorbita: la bellezza carnale e la virtù del canto, insieme a qualcosa di profondamente indescrivibile.

Nel film di Paolo Sorrentino, Parthenope è una ragazza bellissima, intelligente, capace di distinguere il bene dal male e, soprattutto, sedurre. La storia inizia con la nascita che avviene proprio nel mare: si sa che il parto in acqua lenisce il dolore della gestante, le riduce i tempi del travaglio e il rischio delle lacerazioni. Anche le comuni mortali possono chiedere il parto in acqua, non solo le ricche borghesi napoletane amiche del grande armatore Achille Lauro. Le onde in cui nasce Parthenope bagnano Villa Lauro: il bellissimo palazzo, appartenuto all’armatore, affaccia proprio sulla spiaggia di Posillipo e per il parto in acqua basta un passo. La bambina nata in quel mare deve tanta fortuna al padre, amministratore della flotta Lauro, nel film interpretato da Alfonso Santagata, che le porta in regalo una carrozza – come nelle favole – e la alloggia nel salone di casa.

Dentro quella carrozza la bambina gioca, cresce, sogna.

Ispirato al mito della sirena, il regista descrive la sua città attraverso le sembianze e le avventure di una donna viva. Parthenope (Celeste Dalla Porta) sin dalla nascita ammalia chiunque: in particolare i compagni dei suoi giochi che sono il fratello Raimondo (Daniele Rienzo), disperatamente innamorato, poi suicida; e l’amico Sandrino (Dario Aita). Essi sono i suoi veri e impossibili amori carnali da cui riceve affetto e venerazione; ad essi si concede una volta, innescando il dramma.

La non comune bellezza, da sola, non consente tuttavia di sfuggire a ruoli sociali di ripiego: chiunque cerchi di sottrarsi a un destino già segnato, piuttosto deve imparare a vedere, pensare, capire. Paolo Sorrentino descrive una vita straordinaria, irriverente, corredata da incontri speciali: Parthenope ama leggere; le vediamo tra le mani i racconti di John Cheever… e le accade di incontrarlo in carne, ossa e alcool, a Capri: si tratta di una licenza poetica perché John Cheever a Capri non c’è stato mai. Il grandissimo scrittore, poco conosciuto e letto da noi italiani, ha amato molto l’Italia: ha visitato Napoli in due singole giornate a distanza di anni, perché la città lo metteva in soggezione; ma le ha dedicato due racconti (se non sbaglio). Sono certo che Cheever rappresenti un amore letterario del regista, che lo ha inserito per i meriti artistici, sociali e antropologici. I meriti artistici sono indubitabili; la sensibilità sociale e la comprensione dell’essere umano si può avvertire leggendo suoi racconti e lo straordinario romanzo Falconer.

Parthenope è consapevole della propria bellezza e la utilizza come un grimaldello in grado di aprire tutte le porte: questo le consente di vedere, pensare, capire: per trovare le risposte migliori alle domande più ovvie si iscrive alla facoltà di Antropologia. Lo studio dell’uomo si concretizza sul campo, cioè dovunque: in una città come Napoli, in modo particolare, perché è un luogo in cui i sentimenti, nella loro ambiguità e nella loro ambivalenza, sono esibiti più spudoratamente che altrove.

La ragazza sostiene un esame con il prof. Marotta (Silvio Orlando) persona che sa e capisce; il rapporto culturale tra di essi nasce dal non detto, dall’intuìto – come i legami più forti che si strutturano profondamente – anche grazie a due frasi particolarmente azzeccate: “agli esami ci si presenta cacati e pisciati” e: “io non giudico lei, lei non giudica me”. Le due frasi rappresentano l’impegno da profondere in uno studio serio senza accampare scuse; ed evitare i pregiudizi.

Così Parthenope trova un maestro e, tramite quello, l’autorizzazione ad addentrarsi nello studio della vita e della cultura cittadina: i bassi napoletani con la povertà; la mitica fede in San Gennaro fatta di urla ed esibizionismi; le feste della ricca borghesia e della nobiltà storica; il fascino arcaico della malavita e, soprattutto, la sessualità variegatissima, incestuosa, sospesa tra sacro e profano.

Parthenope desiderabile, seducente, si lascia sedurre e si pone in bilico tra il bene ed il male: il bene è rappresentato dall’amore per il sapere insegnato dal prof. Marotta; il male, dalla lusinga diabolica, nascosta in una frase non detta “se ti prostri davanti a me tutto questo sarà tuo…” (Luca 4, 7) ma intrecciata nelle maniere del vescovo Tesorone (Peppe Lanzetta). La giovane afferra il bene, nonostante le seduzioni: rifiuta quella del ricchissimo industriale che si muove in elicottero e in nave, ma accetta quella di un malavitoso locale (somiglia al Sindaco del Rione Sanità) da cui rimane incinta con scelta consapevole; accetta la compagnia dello stesso vescovo, che conosce il piacere delle donne. Invece rifiuta il mondo di finzione, rappresentato dall’arte cinematografica. Segue i consigli del suo maestro: la laurea, la cattedra all’Università di Trento e la sua vita si allontana da Napoli, dove sono persi i legami affettivi dopo che il suicidio del fratello Raimondo ha sbriciolato la famiglia e le amicizie. La Napoli della meraviglie e della felicità forse si è sbriciolata anch’essa nello stesso periodo con il terremoto, con la scomparsa del grande armatore…

Un balzo vorticoso nel tempo spinge alla conclusione della vicenda professionale: i famosi quarant’anni d’insegnamento, tutti trascorsi a Trento, restituiscono Parthenope adulta (Stefania Sandrelli). Ritorna: la città è diversa, ma forse poi non così tanto; è avvenuto il grande miracolo, importante come quelli di San Gennaro se non di più: lo scudetto calcistico.

Gli argomenti trattati nel film sono forse troppi: la sessualità disinibita, i desideri incestuosi, gli estremi della ricchezza e della povertà, l’impasto sociale della malavita, i poteri occulti, l’ambiguità della religione, la sacralità laica, la critica violenta alla napoletanità, l’impossibilità dell’amore, l’ovvietà dell’aborto, la ricerca dell’amore senza fine… il dramma, non desiderato, dell’essere figli e dell’essere genitori.

Alcuni personaggi fortemente simbolici si aggiungono a quelli già descritti. in particolare le dive Flora Malva (Isabella Ferrari) e Greta Cool (Luisa Ranieri): appassita e nascosta la prima; alla moda e superba la seconda; entrambe fragili, sconfitte dalla lusinga, per troppo tempo belle

Sorrentino inserisce nel film riferimenti letterari, teatrali, cinematografici, anche omaggi ad altri grandi registi, Rossellini e Fellini… il mancato miracolo di San Gennaro; poi il camion che disinfetta le vie e si incrocia con il corteo funebre per indicare la stagione del colera – uno dei tanti guai napoletani – è così congegnato da sembrare lo scheletro di un mega virus, untore esso stesso; e il buffo veicolo – una specie di nave a vapore su ruote – che percorre il lungomare nella scena finale carico di giovani festeggianti lo scudetto, oltre ad essere un omaggio a Fellini (e perciò a se stesso) suggerisce l’idea dell’eterno ritorno di ciò che rinasce: il trionfo della vita, dei sogni, dei desideri.

Le immagini di Napoli e dei panorami sono bellissime (direttrice della fotografia Daria D’Antonio) e la colonna sonora, scelta dallo stesso Sorrentino, si sposa benissimo a quelle. In sostanza Paolo Sorrentino ha riscritto una grande bellezza: quella romana era rappresentata tragicamente dal personaggio di Sabrina Ferilli, che si mescolava nella vita cittadina per scomparire; quella napoletana è disegnata completamente sul corpo di Celeste Dalla Porta.

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