La ragazza sul divano

La ragazza sul divano

Stiamo attraversando un periodo di particolare insicurezza: sarà conseguenza delle pandemie, delle guerre e dei genocidi, degli hater professionisti e improvvisati, delle avidità deliranti… tant’è.

In questa attuale società liquida tutto è messo in discussione: dall’identità sessuale, all’identità politica, all’identità pura e semplice. Anche i ruoli sono meno chiari: chi insegna? chi apprende? chi fa rispettare la giustizia? chi rispetta la giustizia? chi racconta cosa sia la giustizia? individuale e sociale.

Le più banali certezze sono scomparse e, ironia dell’inconscio sociale, più i politici di destra e gli animi reazionari si ostinano a gridare lo slogan Dio, patria e famiglia e più questi valori si frantumano.Il senso della famiglia in particolare – della patria non parlo per semplice pudore – sembra avere mantenuto un valore quasi solo economico, come attestano le cause di separazione; per fortuna la ricerca di Dio è instancabilmente senza fine.

In questo clima l’autoritarismo spinge sempre più verso la polverizzazione delle logiche più banali e annoto con straordinaria regolarità il moltiplicarsi di produzioni artistiche e culturali che pongono l’attenzione alla famiglia non più come porto accogliente ma come il luogo del malessere più profondo per i guasti che essa freudianamente produce.

La cosiddetta famiglia nucleare tradizionale, formata dal maschio biologico, dalla femmina biologica e dai figli non importa come, attraversa una crisi sempre più profonda. Non sappiamo più cosa sia famiglia semplicemente perché se ne è perduto il senso – a partire dal significato etimologico – e non si comprendono più le responsabilità reciproche: in effetti non si tratta proprio di un fatto nuovo perché da circa cinquemila anni le cose vanno così e prima ancora è difficile dire perché non abbiamo documenti sufficienti.

Comunque, in questo periodo di autoritarismo e di riproposizioni di dei, patrie e famiglie vengono descritte sempre prevalentemente le relazioni disfunzionali e quando, nei libri un po’ reazionari che ora vanno di moda, si cerca di mettere ordine allora i risultati sono ancora peggiori: in tutti questi casi l’identità di genere sessuale o il colore della pelle non c’entrano nulla; piuttosto sembra imploso il senso della responsabilità reciproca.

Le mie ultime avventure letterarie e teatrali segnalano questo problema: da Le cose di prima di Giuseppe Aloe, in cui una moglie e il suo amante riducono in schiavitù marito e figlio fino all’omicidio; a Tutto su di noi di Romana Petri, in cui il rapporto di dipendenza sessuale sembra l’unica logica relazionale famigliare; a La ragazza sul divano di Jon Fosse che delinea un percorso di sentimenti come amore, gelosia, invidia, rancore così strettamente intrecciati da indurre alla confusione più assoluta. Proprio di questo spettacolo teatrale voglio parlare.

All’apertura del sipario, che in realtà è già aperto, una donna di mezza età dipinge il ritratto di una ragazza accovacciata su di un divano. Il momento creativo è accompagnato da un senso di inadeguatezza, perché il suo momento creativo dipende dal senso di inadeguatezza. L’insoddisfazione artistica scatena in lei, sempre, un vortice di sentimenti che sono gli stessi di un’adolescenza tutt’altro che felice; oppure il malessere esistenziale la mantiene nel vortice dell’insoddisfazione tout court.

L’autore Jon Fosse è un norvegese che scrive nella propria lingua: ottenne notorietà in patria nel 1983 con la pubblicazione del romanzo Raudt, Svart (Rosso, Nero) ispirato a Le rouge et le noir di Stendhal. Nel 1993 la fama fu internazionale per l’opera teatrale Nokom kjem til å kome (Qualcuno arriverà). Da allora la sua voce è considerata un patrimonio universale e il governo norvegese gli ha concesso, per meriti letterari, di risiedere nella residenza di Grotten, edificio del XIX secolo situato nel cortile del Palazzo Reale. Nel 2023 ha ottenuto il Premio Nobel per la Letteratura; nel 2012 si era convertito al cattolicesimo.

Nel dramma La ragazza sul divano la donna di mezz’età (Pamela Villoresi) ricorda la propria adolescenza ed essa prende forma sulla scena che si anima: la ragazza distesa sul divano (Giordana Faggiano) è lei stessa; poi c’è la sorella (Giulia Chiaramonte) che cerca la fuga sessuale nella zona del porto; la madre (Isabella Ferrari) perennemente sull’orlo di una crisi di nervi; l’amante della madre è lo zio paterno (Michele Di Mauro); manca il padre (Fabrizio Contri) imbarcato da mesi su di una nave da carico. I ricordi si affollano perché la madre, al tempo presente ormai molto anziana, sta per morire: tra di essi, c’è la scena drammatica di un rapporto orale tra zio e madre, consumato su quel divano e il rientro improvviso del padre appena sbarcato che li scopre; le inutili proteste d’innocenza; l’uscita di scena definitiva del padre e poi della sorella; la sua decisione di restare da sola in quella casa. Alcuni ricordi ancora vanno agli affetti, all’apparenza sinceri, del padre e dell’ex marito (Valerio Binasco); infine il ritorno al presente e al ritratto della ragazza sul divano che non potrà mai riuscire bene.

Si capisce che Jon Fosse possiede una cultura psicoanalitica piuttosto solida e fertile, alla maniera dei tragici greci, perché i personaggi che descrive mostrano una profondità che si svela oltre le parole, in situazioni e gesti che ricalcano gli schemi affettivi radicati nelle viscere della nostra cultura. (Il caso ha voluto che solo pochi giorni prima un mio ex paziente mi abbia raccontato proprio quella scena: tornando a casa inatteso ha trovato la moglie e con un uomo che le stava dedicando un rapporto orale, con le stesse modalità, le stesse proteste, la stessa uscita di scena)

Si capisce che la resa drammatica dipende dalla qualità della regia e delle interpretazioni: Valerio Binasco è un grande interprete dei testi teatrali in genere e, a quanto pare, il principale interprete del teatro di Fosse in Italia. La restituzione è coinvolgente e svela per intero le qualità della scrittura di un grande autore anche difficile da mettere in scena. Gli interpreti sono straordinari: Pamela Villoresi protagonista notevole, in scena insieme a Binasco, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Giulia Chiaromonte, Fabrizio Contri e Isabella Ferrari a sua volta trainante. Il dramma si sviluppa fatalmente e attrae nei suoi meandri anche grazie a lampi di ironia quasi surreale. Che lo spettacolo sia coinvolgente e bello lo si capisce già dall’ingresso in platea in cui tutti i posti occupati con l’aggiunta di alcune poltroncine in più e si nota la presenza di nomi importanti del mondo della cultura e dello spettacolo, venuti all’ultima replica da non perdere assolutamente.

La forza registica sta nei tempi mescolati perché tutto accade simultaneamente: il ricordo del passato diviene vivo attraverso i movimenti dei personaggi  presenti in carne ed ossa. La protagonista osserva se stessa e la sua famiglia, vede i personaggi del passato che dialogano e si richiamano per echi. Come suggeriva Sigmund Freud tutto avviene nell’infanzia ed è fissato una volta per sempre: le opzioni per lacerare il teatro delle ripetizioni vengono quasi sempre, sistematicamente e coerentemente, rifiutate se non si affronta il passato e lo si lascia esistere solo nella memoria.

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