Ottobrate romane
Le Ottobrate romane erano feste che chiudevano la vendemmia: nella Roma pontificia, la tradizionale gita tra vigne e osterie furoreggiò in tutto il XIX secolo come forma di svago ed evasione per nobili e popolani, mescolati nella più sfrenata e sensuale allegria.
Gli orti e le vigne intorno alle porte della città ne favorivano la diffusione: le zone di Testaccio, Ponte Milvio, San Giovanni, Porta Pia, San Paolo, Monteverde, Monte Mario erano luoghi ancora coltivati a orti e vigne fino all’inizio del ‘900. Stampe e incisioni ottocentesche mostrano donne ornate di fiori e piume e uomini vestiti con sfarzo che si recano “fuori porta” su carri addobbati o danzano il saltarello sui prati.
La tradizione delle Ottobrate – antica eredità dei baccanali e delle feste dionisiache – rimane viva ancora oggi, messa più che altro in relazione al caldo sole d’ottobre.
In questa prima domenica di ottobre abbiamo rinnovato il rito, adattandocelo addosso: al mattino abbiamo assistito alla celebrazione della messa nella chiesetta medievale di San Lazzaro in Borgo (alle pendici di Monte Mario) che volevamo visitare da tempo; abbiamo preso un aperitivo e mangiato qualcosa ai tavoli all’aperto di un ristorante e, il pomeriggio, siamo stati spettatori ammirati di Roberto Herlitzka in “examleto” nel teatro Lo Spazio, fuori Porta San Giovanni, secondo tradizione.
La chiesa di San Lazzaro in Borgo (o San Lazzaro dei lebbrosi), era l’ultima tappa dei pellegrini diretti verso San Pietro dalla via Francigena; essa origina da una piccola cappella dedicata a Santa Maria Maddalena (famosa peccatrice redenta) nella quale i pellegrini confessavano i propri peccati prima di osare l’ingresso nella città papale. La Cappella è ritenuta anteriore al XII secolo, anche se la prima notizia ufficiale si trova nell’Ordo Romanus X (1271 -1276). Il cambio della titolazione – in S. Lazzaro – avvenne nel 1480 in concomitanza con l’apertura di un lebbrosario per i pellegrini nella locanda adiacente la chiesa, per espressa volontà testamentaria del proprietario. Durante il Sacco di Roma (1527) la chiesina subì gravi danneggiamenti; fu però ricostruita successivamente (1536): perciò la struttura architettonica è originale, ma affreschi ed altarini laterali (teneramente poveri) sono rinascimentali e barocchi. Nella seconda metà del XVI secolo la chiesa fu sede della Confraternita dei Vignaioli del Borgo, che dedicarono una pala d’altare (in realtà un affresco bruttino e molto danneggiato) a Santa Maria Maddalena. La facciata è dotata di un piccolo campanile a vela, ha un portale incorniciato di marmo, sovrastato dallo stemma del Capitolo di S. Pietro, ai cui lati si trovano i sedili per la sosta dei viandanti. L’interno, piccolissimo, è diviso in tre navate per mezzo di due architravi con archi a tutto sesto, sostenute da sei colonne d’età romana di riutilizzo (tre per lato); il tetto è a capriate con travi a vista. L’edificio del lazzaretto, annesso alle proprietà dell’Ospedale di S. Spirito in Sassia, non esiste più: chiuso e abbandonato, crollò nel 1937; al suo posto oggi si trova un bel parcheggio ad uso del nuovo palazzo dei tribunali. La chiesa, per quanto sconosciuta ai più, è una delle chiese storiche – governata da un rettore nominato dal vescovo di Roma – ed è ricordata nelle cronache per diversi motivi: i papi eletti fuori Roma, facevano la vestizione ed iniziavano il corteo diretto in città a partire da San Lazzaro; gli imperatori che scendevano a Roma, sostavano in questa chiesa in attesa dei messi pontifici; la cinta muraria intorno al lazzaretto rappresentava, infine, una specie di “cordone sanitario” per la quarantena nel caso di gravi epidemie.
Ritemprati spiritualmente e spiritosamente, con piacere nel tepore pomeridiano ci siamo recati al teatro Lo Spazio: si tratta di una grossa cantina – o garage – situata sotto il livello dei giardini lateranensi, fuori le mura aureliane; è difficile da rintracciare perché al fondo di via Locri, piccola traversa laterale di via Sannio. All’esterno della sala, un gruppo di giovani ci guardava con curiosità e ricambiavamo lo sguardo con altrettanta curiosità come se la visione reciproca fosse inconsueta. Ci venne il dubbio di avere sbagliato luogo, o giorno, oppure orario; invece nulla di tutto questo: si tratta di un luogo in cui ci si osserva reciprocamente. Nello stanzone senza finestre solo l’impianto del condizionatore tiene a bada l’odore di muffa che, però, disturba meno del previsto; il palcoscenico è abbastanza grande.
La scena era nuda, chiusa nei tre lati da quinte di stoffa nera: al centro una sedia, un leggio e tre oggetti posati a terra. Il testo di examleto è l’Amleto di Shakespeare, cui sono state tolte le voci degli altri personaggi tranne qualche piccola cosa: le battute del becchino e due frasi della madre-regina e dello zio usurpatore. Herlizka parla, si muove, ascolta, replica, compie gesti verso qualcuno che non si vede, ma c’è.
Sì, l’evocazione della parola e del gesto ci ha fatto osservare la madre parlare con Amleto, Orazio rivolgersi a lui e Laerte combattere nel duello mortale; abbiamo visto Ofelia impazzire… gli amici tradire… il principe di Danimarca commuoversi, ridere, uccidere… nello spazio di pochi metri quadri, senza scenografie, senza musiche, senza rumori di sorta. I soli oggetti erano la spada, la cornice vuota di uno specchio con manico, il famoso teschio che, a fine spettacolo, ha desiderato a salutare il pubblico con il movimento del capo.
Spettacolo straordinario: il pensiero di Amleto – vivido, tragico, ironico – reso carne, pelle, ossa da un grandissimo interprete. (pietrodesantis)
Non suono il flauto non mi specchio il viso
non leggo il testo non tiro di spada
non tocco il cranio non muoio neppure
non ho trentʹanni e non faccio lʹAmleto. (Roberto Herlitzka)
Ex Amleto di W. Shakespeare da Roberto Herlitzka
traduzione Alessandro De Stefani
luci Franco Polichetti
con Roberto Herlitzka
produzione Teatro Segreto s.r.l