“La banda dei brocchi”

“La banda dei brocchi”

di Jonathan Coe
Titolo originale “The Rotter’S club”, 2001
Traduzione di Roberto Serrai, Universale Economica Feltrinelli nona edizione 2008;
prima edizione italiana Feltrinelli “I Narratori”, 2002

Si può arrivare allo stesso traguardo partendo da punti diametralmente opposti o reciprocamente remoti: in occidente si conclude la vita gloriosamente o miseramente nella medesima povera cultura borghese, anche se si è partiti dalla condizione operaia o contadina, dalla middle class o dall’aristocrazia.
Jonathan Coe ha pubblicato questo libro in occasione dei suoi quaranta anni di vita, con un intervento retrospettivo per guardare indietro a come erano, egli ed i suoi amici, venticinque anni prima, l’età della adolescenza. Questo traguardo è arrivato per lui e per tutti i coetanei che vengono rappresentati nell’attualità di un tempo lontano.
Racconta della sua città di Birmingham, delle lotte operaie, degli attentati dell’IRA, dell’omicidio di una bella ragazza probabilmente ad opera di un gruppo di adolescenti, del razzismo, dell’arroganza del potere, degli amori, della perdita delle verginità: “non c’è nulla di nuovo sotto il sole” (Sacra Bibbia, libro di Qoèlet, 9c) sebbene “non si possa discendere due volte nel medesimo fiume” (Parmenide, Sulla Natura, 91 Diesl‐Kranz).
Il pretesto al racconto è dato da un incontro tra altri due coetanei: i figli di due coprotagonisti incontratisi per caso a Berlino, abbandonati dai rispettivi genitori in un ristorante a parlare della loro storia, cioè degli adolescenti nell’Inghilterra del 1973, senza cellulari e senza play station.
I racconti si dipanano saltando da personaggio a personaggio: Benjamin, Claire, Philip, Doug ed altri che ruotano introno al King College e appaiono nelle strade della città in cui si esprimono l’impudicizia dell’adolescenza e la presupponenza dell’età adulta. Con una successione quasi cronologica il lettore viene introdotto in una gradevole macchina del tempo priva di autocompiacimento. Agli occhi del lettore vengono imprestati i corpi e le frasi dei due giovani figli che cenano a Berlino nel famoso ristorante sospeso sopra il Reichstag nel 2003 (strana scelta cronologica posteriore alla data di pubblicazione che è del 2001).
Il protagonista principale potrebbe essere Benjamin, il più imbranato di tutta la banda pur se eccellente in ogni corso di studi, artefice principale nella rivista scolastica “La bacheca”. Ciò che l’autore riesce a riprodurre sulla pagina scritta, attraverso le avventure dei suoi protagonisti, è il duplice livello di cultura e di vita: quello degli adulti e quello degli adolescenti; che scorrono l’uno sull’altro nella quasi assoluta ignoranza reciproca, come due flussi di correnti sottomarine assolutamente fluidi ma, nello stesso tempo per le misteriose leggi della natura e dell’inconscio, assolutamente determinati.
Sostengo che il protagonista, è cioè l’alter ego dell’autore, potrebbe essere Benjamin perché nella sua inconsapevole schizofrenia è l’unico che sembra percepire la presenza di entrambi i flussi. Ed è proprio la schizofrenia a salvarlo, oltre ad un profondo amore leale nei confronti dei compagni e della sorella, mentre tutti gli altri sembrano avviarsi, all’interno della corrente adolescenziale verso il punto senza ritorno in cui essa confluisce nell’altra del mondo adulto, inconsapevoli dei nuovi adolescenti e, solo e sempre, presi dal proprio gioco.
L’autore ha il piacere e l’abilità di cambiare i punti di osservazione, confondendo un poco il lettore, nei differenti capitoli per fornire un’immagine corale. Si comporta come “il cane che scorta una mandria di porci” di manzoniana memoria che rincorre di volta in volta quello che è rimasto indietro per ricondurlo nel gruppo.
In ogni romanzo corale che si rispetti c’è la presenza del male che, purtroppo, non viene riconosciuto dai protagonisti a causa degli immancabili difetti di ciascuno; ed il male spesso si traveste e mimetizza: si lascia intravedere là dove non è che un riflesso, come in un gioco di specchi. In questa storia il male sembra rappresentato dall’invidioso Culpepper roso dalla superiorità fisica del giovane immigrato Richards (e ancor di più dal desiderio omosessuale rimosso, direbbe lo psicoanalista) mentre in realtà è assai più presente nella figura di Paul, fratello minore di Benjamin, rappresentato come un bimbo intelligente e privo di sentimenti, dal sadismo gratuito, potenziale assassino e prodotto della ambigua cultura borghese.
L’architettura del romanzo è robusta e ben studiata; al suo interno si palesa la cultura classico‐letteraria dell’autore che emerge, senza il peso delle citazioni, dall’impianto stesso dell’opera: la datazione (“nel mezzo del cammin di nostra vita”, cioè i suoi quaranta anni); l’introduzione o protasi nell’incontro tra i “figli” (“Cantami o diva del Pelìde Achille…”) ; gli sviluppi delle azioni con i diversi protagonisti (Iliade, Odissea); le cronache storicamente documentate (come nei grandi romanzi ottocenteschi); l’esodo finale simile al monologo di Molly (Ulisse di Joyce); la conclusione (il cielo stellato della Divina Commedia) nel ristorante della cupola posta in cima alla Fernshturm, sotto il cielo stellato di Berlino.

Jonathan Coe è nato a Birmingham nel 1961; appassionato di cinema e di biografie è diventato famoso con il romanzo “La famiglia Winshaw” (1995).

I commenti sono chiusi