Categoria: Libri

I miei stupidi intenti

I miei stupidi intenti

Il libro del venticinquenne Bernardo Zannoni ha vinto il premio Bagutta opera prima e anche il 60° premio Campiello! Ho sempre dichiarato la mia ammirazione per i vincitori del premio Strega, mescolando all’invidia per il successo l’apprezzamento per la qualità della scrittura; non sempre – o quasi mai – sono rimasto affascinato dai contenuti: già solo questa affermazione mi svela in cattiva coscienza, visto che lascio pendere il piatto della bilancia da una parte o dall’altra separando, erroneamente, la forma dal contenuto.

Vabbè chi vince un premio ha sempre ragione e chi non vince niente ha sempre torto; ma devo essere sincero: questo premio Bagutta opera prima e questo premio Campiello mi inducono a superare la farraginosa e invidiosa dicotomia: il libro è bello, lo stile si confà alla qualità del contenuto.

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Il colibrì

Il colibrì

Non ho letto il romanzo di Veronesi l’estate in cui ha vinto il premio Strega, cioè nel 2020; l’ho letto invece ora, a distanza di due anni, stimolato dalla domanda di una persona che mi ha chiesto un parere. Questa persona ha visto anche il film di Francesca Archibugi. Confesso di aver provato più interesse per quella domanda, che per il premio Strega: mi ha indotto a leggere l’importante best seller, edito dalla Nave di Teseo. Rimango affascinato dai vincitori dei premi letterari, che stimo a prescindere; pertanto, mi affretto subito ad affermare la qualità della scrittura e dell’impostazione, per rivedere il giudizio a fine lettura, cercando un significato oltre le parole: sarà deformazione professionale.

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Sognando il gatto

Sognando il gatto

Ho sentito parlare di questo libro – apparentemente dedicato ai ragazzi tra i 10 e i 13 anni – per ben due volte nelle trasmissioni di Radio3. L’autore, Mario Desiati, ha recentemente vinto il Premio Strega con Spatriati e, pertanto, merita la massima attenzione: questo significa innnanzitutto invidia, la mia. Non so come si faccia a vincere un premio, mi sembra impossibile, e ammiro chi riesce. Immagino sia importante affrontare quelle pagine scritte cercando di carpirne il segreto; però di Spatriati parlerò in un’altra occasione.

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Tiro al piccione

Tiro al piccione

“Prima di venire inserito nelle antologie, uno scrittore deve essere mortissimo” così diceva la grande Maria Luisa Spaziani, amica per un tempo breve. Mortissimo significa scomparso da un sufficiente numero di anni, in modo che il ricordo non possa nuocere a quanti siano rimasti, per le polemiche di parenti e affini o per il rinvenimento improvviso di scritti segreti. “Poi – aggiungeva – bisogna che qualcuno se ne innamori, cioè comprenda la sua opera, l’apprezzi, la decodifichi, nei termini culturali, sociali e umani”.

È quanto sta accadendo all’opera di Giose Rimanelli? Personalmente ne conosco un unico frammento – seppure il più noto –, cioè il famoso Tiro al piccione, uno dei più tragici, violenti, sofferti romanzi del Novecento. Torna in libreria, finalmente, dopo le distorsioni politiche e gli ostracismi culturali, con la dimensione di opera importante per la letteratura italiana del dopoguerra. Personalmente ho le idee confuse, non sulla qualità dell’opera, ma sulla letteratura del primo dopoguerra, perché resto sbigottito a riguardo della parola guerra: la questione, per me, non dipende dal lato della barricata, perché resto ugualmente sbigottito nei confronti del libro antiparallelo Il partigiano Jonny di Beppe Fenoglio.

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La vita davanti a sé

La vita davanti a sé

Con colpevole ritardo, ho letto il bel libro di Romain Gary (al secolo Romain Kacev) solo alla cinquantatreesima (!) edizione del 2021, di Neri Pozza. L’ho letto perché qualcuno mi ha detto che il (mio) libro C’era una città, or ora pubblicato da Armando, ne ricorda lo stile.

Allora l’ho letto: mi è piaciuto. E’ un bel libro, un romanzo toccato dalla grazia, secondo alcuni critici; è sicuramente scritto con grazia: ha vinto il premio Goncourt nel 1975. Ovviamente mi auguro che un po’ di quella grazia, magari una spruzzatina, raggiunga anche il mio.

La vita davanti a sé è il resoconto autobiografico di un bambino nato e cresciuto nella banlieu parigina, la cui età indefinita è ben attestata da documenti falsi; sicuramente di famiglia musulmana, confermata dal nome Mohammed, Momò è allevato da un’anziana e grassissima ex prostituta ebrea, scampata ai campi di concentramento ma ormai troppo poco donna per il mestiere, che si mantiene tenendo a balia “i figli di puttana” – che le madri puttane vogliono scampare ai brefotrofi – in cambio di una modesta retta mensile.

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