I miei stupidi intenti

I miei stupidi intenti

Il libro del venticinquenne Bernardo Zannoni ha vinto il premio Bagutta opera prima e anche il 60° premio Campiello! Ho sempre dichiarato la mia ammirazione per i vincitori del premio Strega, mescolando all’invidia per il successo l’apprezzamento per la qualità della scrittura; non sempre – o quasi mai – sono rimasto affascinato dai contenuti: già solo questa affermazione mi svela in cattiva coscienza, visto che lascio pendere il piatto della bilancia da una parte o dall’altra separando, erroneamente, la forma dal contenuto.

Vabbè chi vince un premio ha sempre ragione e chi non vince niente ha sempre torto; ma devo essere sincero: questo premio Bagutta opera prima e questo premio Campiello mi inducono a superare la farraginosa e invidiosa dicotomia: il libro è bello, lo stile si confà alla qualità del contenuto.

È bello già il titolo, evocativo per il pronome possessivo miei che induce all’identificazione; poi per l’aggettivo stupidi, che umanizza il protagonista narratore e motiva un po’ di simpatia verso la sua fragilità consapevole; infine, per il sostantivo intenti. Gli intenti non sono i fatti della vita e nemmeno i comportamenti, ma qualcosa di più profondo e sottile…

Che cosa sono gli intenti? Sono ciò che ci si propone di raggiungere, al quale tendono le azioni e i desideri… si parla perciò di stupide azioni scaturite da stupidi desideri. Quali saranno gli stupidi desideri? I desideri acritici, dei quali non siamo pienamente – o per nulla – consapevoli; dei quali non comprendiamo il senso nemmeno dopo aver compiuto il gesto stupido, che lascia sbalorditi e attoniti.

Un gesto non è stupido per sua natura – un gesto è un gesto – ma diviene tale in quanto privo di intelletto, perché precede (oppure è privo di) ogni atto riflessivo, essendo guidato da qualcosa di inappropriato, da un frutto tardivo dell’inconscio… gli stupidi intenti sono guidati da desideri inconsapevoli, rispetto ai quali ci dimostriamo tutti ottusi, spesso sbalorditi.

Gli istinti abitano tutti gli esseri esistenti: ci debbono mantenere in vita e, tramite noi, debbono salvare la specie. La storia di Archy, una faina, inizialmente è priva di stupidi intenti – dominata dagli istinti che inducono alla paura e all’aggressività – solo impegnata nella lotta per la sopravvivenza per la quale non esistono alternative tra vita e morte: chi è forte vive, chi è debole muore e diviene cibo per chi vive.

Archy è abbastanza forte per vivere, ma troppo debole per crescere e diventare autonomo, soprattutto perché zoppo: la sua spietata madre non ne attende la morte e, in un gesto di violenza previdente, preferisce scambiarlo con una gallina e mezza lasciandolo a servizio dall’usuraio Solomon, volpe molto vissuta e spietata, dotata di una razionalità sconvolgente. Solomon, Salomone, ha molti segreti: primo tra tutti la consapevolezza di sé. Forse il romanzo difetta un po’ di logica, forse no (e lascia il sospetto di un cripto razzismo): gli animali parlano, usano piatti per il cibo, stoviglie, tavoli, letti, accendono fuochi, ma il loro rimane un mondo in cui si lotta per la sopravvivenza, duro e spietato come è la natura. L’uso degli artefatti umani è un espediente illogico? Oppure l’autore immagina gli utensili entrati a far parte del regno animale? Oppure, forse, descrive l’animale umano nella sua inconsapevolezza…

Insomma, il libro narra dell’apprendistato e poi della lunga vita della faina che, alla fine, rimane diviene un documento scritto di suo pugno (scripta manent). Fra gli alberi dei boschi, le colline, le tane sotterranee e la campagna soggiogata dall’uomo, si compone la storia di un animale diverso, che somiglia un po’ – per chi lo conosce – al famoso Firmino, il topo letterato immaginato da Sam Savage.

Archy è nato in una notte d’inverno, assieme ai suoi fratelli; la madre, cui hanno ucciso il compagno, si ritrova a crescerli da sola… l’autore tiene a bada – abbastanza – le molte tentazioni antropomorfe: non si parla di marito, ma di fratelli e sorelle sì; però, il finale ricorda un po’ troppo l’Edipo Re di Sofocle oppure il Re dei Boschi di James Frazer.

La giovane faina impara che tutti gli animali sono mossi dalle necessità: il più forte domina e chi è debole deve arrangiarsi, ma essere ceduto in cambio di una gallina e mezza – per l’esattezza una subito e mezza qualche giorno dopo – costituisce la sua più grande fortuna. Gli insegnamenti dell’usuraio Solomon, ladro e assassino non soltanto per necessità, ne sconvolgono la vita: gli amori rubati, la crudeltà quotidiana, il tempo presente e quello passato non si manifestano più come una pura e semplice legge del vivere. Fra terrore e meraviglia, con il passare implacabile delle stagioni, Archy diventa faina sapiens, un miracolo silenzioso fra le foreste, un’anomalia come il suo maestro.

La vecchia volpe e la giovane faina hanno mangiato il frutto dell’albero della conoscenza: non si tratta certo del desiderio sessuale e nemmeno della scrittura; quel frutto è la curiosità – che stimola i desideri del sapere frivolo e di quello riflessivo -, fondamento della cultura. L’importanza della scrittura inganna il lettore e forse anche l’autore: la testimonianza scritta costituisce solo l’ultimo passaggio nell’esperienza culturale umana. In Grecia, culla del sapere, la scrittura divenne fenomeno sociale solo nell’VIII secolo a.C. mentre Iliade ed Odissea risalgono ad un paio di secoli precedenti: esisteva la tradizione orale, tramandata con il ritmo del canto accompagnato. Platone riteneva che la scrittura avesse persino danneggiato le capacità dell’essere umano… emozioni e sentimenti non sono fenomeni che scaturiscono dalla scrittura anche se, spesso, la vita contemporanea chiede ad essa diviene un valido aiuto.

Naturalmente Bernardo Zannoni è cresciuto nelle lettere e questo libro, omaggio al suo amore, si presta a molteplici riflessioni: sul senso e sulla durata della vita; sul bene e il male. La conoscenza dell’uomo sapiens – scacciato dall’eden – si fonda sull’idea del bene e del male in un modo un po’ particolare: in assenza della cultura il male non esisterebbe – sembra intendere l’autore di questo bel libro – perché ciò che appare crudele e violento risponde semplicemente alle leggi della natura per la sopravvivenza della specie. Dall’esperienza del male scaturisce l’idea del bene e, per questo, il male precede il bene sempre; non solo, senza il male, il bene non esisterebbe…

Personalmente preferisco pensare il contrario (fatti non foste a viver come bruti…) e, visto che posso, lo teorizzo: prima c’è il bene; è la distanza dal bene – cioè la cattiva coscienza – a costituire il male. Credo, perciò, che la cultura non abbia bisogno del male né della cattiva coscienza e, anzi, credo che ne sveli gli inganni.

Un commento ufficiale al libro sostiene che I miei stupidi intenti sia un romanzo ambizioso e limpido; un segno di speranza, di futuro, per chi vive di libri.

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