La vita davanti a sé

La vita davanti a sé

Con colpevole ritardo, ho letto il bel libro di Romain Gary (al secolo Romain Kacev) solo alla cinquantatreesima (!) edizione del 2021, di Neri Pozza. L’ho letto perché qualcuno mi ha detto che il (mio) libro C’era una città, or ora pubblicato da Armando, ne ricorda lo stile.

Allora l’ho letto: mi è piaciuto. E’ un bel libro, un romanzo toccato dalla grazia, secondo alcuni critici; è sicuramente scritto con grazia: ha vinto il premio Goncourt nel 1975. Ovviamente mi auguro che un po’ di quella grazia, magari una spruzzatina, raggiunga anche il mio.

La vita davanti a sé è il resoconto autobiografico di un bambino nato e cresciuto nella banlieu parigina, la cui età indefinita è ben attestata da documenti falsi; sicuramente di famiglia musulmana, confermata dal nome Mohammed, Momò è allevato da un’anziana e grassissima ex prostituta ebrea, scampata ai campi di concentramento ma ormai troppo poco donna per il mestiere, che si mantiene tenendo a balia “i figli di puttana” – che le madri puttane vogliono scampare ai brefotrofi – in cambio di una modesta retta mensile.

Momò racconta il mondo visto dagli occhi di un bambino che vive nelle strade, che non frequenta la scuola perché “è troppo piccolo per la sua età” oppure “è troppo grande per la sua età”. La narrazione è intrisa di un disincanto poetico, fatto degli incanti della vita e degli incantesimi della fantasia; la vita del bambino è popolata di personaggi splendidi, nella loro miseria densa di speranze. A fianco di Momò, di Madame Rosa e dei piccoli a lei affidati, sfilano il dottor Katz, medico ebreo che cura gratuitamente tutta Belleville; il vecchio e saggio signor Halil che impartisce a Momò lezioni di lingua francese e saggezza secolare; Madame Lola bellissimo travestito – ex campione senegalese di pugilato – che vive “vendendo il culo” in Bois de Boulogne; il signor Waloumba che è “venuto a spazzare la Francia” (cioè a fare lo spazzino). Fuori dal coro dei Miserabili, ma dentro al mondo dell’amore, la bella Nadine, attrice e doppiatrice, insieme al compagno Ramon salveranno la vita al protagonista.

La storia si dipana tra la banlieu e le strade belle di Parigi: tra piccoli furti nei negozi, straordinarie stravaganze, frequentazioni di prostitute che gli  offrono cibo e denaro (come a un prosseneta), avventure la cui essenzialità ha il senso del poetico e del filosofico il piccolo Momò sviluppa il senso dell’amore per la madre putativa Madame Rosa, e dell’affetto per tutti coloro che gli dedicano briciole di attenzione (eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni, c’è scritto da qualche parte) perché non si può vivere senza amore, come gli ha insegnato monsieur Halil.

Sarebbe una storia tranquilla e comunque quasi a lieto fine, visto che Momò ha stabilito di non farsi e di non “vivere con il culo”, se Madame Rosa fosse un po’ meno vecchia e stanca e con “tutte le sue cose che si guastano”. Invece arriva il tracollo dell’anziana e ormai informe prostituta verso la quale l’amore di Momò – che ne scruta realisticamente ogni difetto fisico e caratteriale – diviene sempre più cristallino. La donna dovrebbe andare in ospedale a causa delle sue “abitudini” (che sarebbero le ebetudini, gli stati di incoscienza dovuti ai problemi circolatori), ma non vuole vivere come un vegetale: nei momenti di coscienza via via più rari, la donna chiede a Momò di “essere abortita”.  Il bambino non trova giusto che i giovanissimi possano essere abortiti e gli anzianissimi invece no; però vorrebbe sottrasi a quella pena. Così si distrae cercando rare avventure nella vita di strada; ma non riesce a sottrarsi all’amore che prova verso quella straordinaria e assurda madre e la nasconde in uno scantinato dove la donna muore.

Morirebbe a fianco a lei come Quasimodo a fianco di Lola (Notre Dame de Paris) se il tanfo della putrefazione non li facesse scoprire. L’epilogo è rapidissimo, poche righe, nelle quali il bambino si rivolge a Nadine e Ramon che lo prendono a vivere con loro: “Nadine mi ha fatto vedere come si può fare a far andare il mondo all’indietro e la cosa mi interessa molto e la desidero con tutto il cuore”.

Il romanzo, bello, coinvolgente, affronta molti temi di carattere sociale: l’emarginazione, il razzismo, il degrado della banlieue, l’antisemitismo, l’aborto e l’eutanasia, l’indifferenza della società opulenta, l’incapacità di comprendere i bisogni… li affronta con semplicità e senza infingimenti perché è coerente con il periodo storico rivoluzionario e ipocrita…

Ovviamente il consiglio è: leggere! Esprimo solo qualche perplessità legata alla cura di un linguaggio che, nell’essere semplice ed ingenuo, talvolta propone termini troppo evoluti, forse incoerenti in quel tessuto. Non si tratta di stonature, ma di un eccesso “timbrico”; mi domando se si tratti di un problema di traduzione (di Giovani Bogliolo) perché, ovviamente, le pagine sono piene di espressioni idiomatiche e sovrapposizioni logiche/illogiche di parole assonanti, come abitudine ed ebetudine.

Anche io, come una certa tipa di duemila anni fa,  spero in qualche briciola che cada dalla tavola di Romain Gary.

 

 

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