Il male oscuro

Il male oscuro

Ho impiegato 25 anni per leggere Il male oscuro, il capolavoro di Giuseppe Berto.

Il libro pubblicato nel 1964 ha ispirato film (1990, Mario Monicelli) e spettacoli teatrali e forse proprio a causa del monologo di Gigi Angelillo, tratto dal romanzo e messo in scena con la regia di Salvatore Cardone, ho tardato tanto ad andare oltre la copertina ed iniziare la lettura.

Avevo assistito alla prima romana a Teatro Due forse nel 1997, ma non riesco a trovare riferimenti precisi per quel che conti, e mi era rimasta impressa la parte finale del monologo, nella quale il protagonista osserva le luci della Sicilia dall’eremo di Scilla nel quale si è rifugiato, dichiarando la propria incapacità ad attraversare quel breve tratto di mare pur sapendo che, dall’altro lato, c’è un qualcosa di sé con cui sarebbe necessario incontrarsi.

Ecco, oltre alla consapevolezza che il libro trattasse di un percorso analitico effettivamente svolto dallo scrittore con uno dei padri fondatori della psicoanalisi italiana, quest’epilogo mi diede la falsa convinzione che riguardasse un problema famigliare con moglie e figlia; invece aveva principali legami con la figura paterna in generale: ma questo l’ho scoperto, finalmente, solo dopo averlo letto.

Negli anni ’60, la problematica con la figura paterna era in auge (mentre ora prevale piuttosto la figura materna che divora lacanianamente tutto il resto): possiamo citare almeno Edipo Re (1967), Teorema (1968) e Affabulazione (1969) tutti e tre di Pier Paolo Pasolini. La figura paterna era in auge anche a causa di una visione politica che individuava nel padre il rappresentante filosofico, economico e morale della borghesia (non necessariamente cattolica). In questo romanzo di Giuseppe Berto, precursore della lotta sessantottina contro il padre, la figura borghese è piuttosto rappresentata dal figlio; quella proletaria ed ex-contadina dal padre. Nelle opere di Paolini citate, la figura borghese del padre è perdente; in quella di Berto la figura borghese del figlio è perdente.

Il libro fu accolto in maniera sconvolgente: si aggiudicò in una settimana due premi letterari prestigiosi, il Viareggio e il Campiello, e fu tradotto “istantaneamente” in francese, inglese, spagnolo e tedesco.

L’autore conduce il lettore nella vita del protagonista, mediante un flusso di coscienza senza interposizioni narrative: rivela i diversi avvenimenti dell’infanzia e il rapporto difficile con il padre; poi il suo complesso di Edipo e quindi la conflittualità sessuale e il desiderio di gloria; infine i forti sensi di colpa. La trama si sviluppa come descrizione di una malattia nevrotica – una forma di patofobia molto accesa, che riempie complessivamente un decennio –; narra di un matrimonio riparatore e della nascita di una figlia, Augusta, in un alternarsi di ricordi (quasi) ordinati nel tempo. La costante ricerca di medici spinge il protagonista a rivolgersi ad uno psicoanalista (il grande Nicola Perrotti, lasciato anonimo nel romanzo) che risolve, in parte, i suoi problemi. Dichiarato guarito, scopre il tradimento della moglie, in seguito al quale lascia la famiglia e decide di ritirarsi in Calabria.

Pur non frequentando chiesa, sacramenti o cimiteri, Berto trasfonde nel testo un clima di sofferta religiosità – di stampo più sociale che fideistico – che si concretizza nella frase finale, in cui rivela il pensiero e forse il desiderio di essere congedato: «e poi sarà tempo di dire Nunc dimittis servum tuum Domine, forse è già tempo» (il versetto latino è tratto dal Cantico di Simeone, Vangelo di Luca: si capisce, aggiungo parafrasando il Jab linguistico che l’autore utilizza per riportare la narrazione al tempo presente).

Il piacere di assaporare il capolavoro di Berto, verso il quale mantenevo un rifiuto ostinato, è esploso dopo la lettura di Guerra in camicia nera (1955) – un diario autobiografico ironico, drammatico e disincantato della guerra in Africa – all’interno del quale si colgono le premesse dei due temi poi affrontati profondissimamente nel male oscuro. Il secondo dei due temi, sinteticamente archiviato come Complesso di Edipo, riguarda la sessualità o, per meglio dire, il rapporto con la donna.

Il rapporto con la donna non può essere che frivolo oppure drammatico: frivolo se non si assume alcun impegno oltre al puro e semplice soddisfacimento sessuale; drammatico se viene ammessa una presa di responsabilità. Questo secondo aspetto è così tanto drammatico, per l’autore e per l’essere umano maschio in genere, da assumere i toni tragici di una dipendenza che prescinde dall’età, dalla cultura, dalla stessa voglia di vivere o di morire dell’essere umano femmina.

Nel romanzo di Berto, intorno al male oscuro, l’elemento religioso – di una religiosità sociale – sembra imprescindibilmente concatenato con la figura femminile, nei confronti della quale il maschio non può esimersi dal provare desiderio… a meno che non si ribelli socialmente: attraverso una scelta morale, cioè diventando prete, oppure optando per il rifiuto sessuale attraverso l’omosessualità. Sono questi due gli espedienti accettati come forma meno grave di malessere sociale.

Il romanzo descrive anche il passaggio dalla società contadina – rappresentata da padre, madre e sorelle – alla società borghese, raffigurata dal protagonista e dalle sue amanti; una delle quali, trasformatasi in moglie in virtù della gravidanza, attesta l’avvenuto ingresso in ruolo di quel maschio.

Berto utilizza il paradosso della guarigione come pura e semplice opportunità di affrancarsi dal ruolo: un maschio guarito, non essendo adatto alla richiesta totalizzante del Complesso di Edipo.

Un altro prenderà il suo posto. Di tutto ciò l’individuo – maschio o femmina che sia – non è consapevole, convinto sempre e fino alla fine, di essere unico al mondo.

Ma sì, forse il protagonista del romanzo non era per niente guarito…

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *