Contro il muro

Contro il muro

In occasione della conferenza convegno su Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street di Hermann Melville; Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali; Roma, 11 marzo 2016.

Affrontare il “caso” Bartleby parlandone come di un caso clinico?

Cercando esempi tra libri che siano stati “analizzati” in modo coerente come avviene durante i trattamenti psicoanalitici, l’autobiografia del Presidente Schreber (Daniel Paul Schreber, Memorie di un malato di nervi, 1903) viene in mente senza dubbio per prima: Sigmund Freud ne dedusse la personalità dell’uomo e ne descrisse la malattia psichica (Sigmund Freud, Caso clinico del Presidente Schreber, 1910).

Nel caso di Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street (Hermann Melville, 1853), nascosta dietro allo scritto probabilmente non c’è l’identità di una singola persona, ma una raccolta di esperienze ed impressioni, che lo stesso scrittore ha accumulato e conservato.

Il primo commento dovrebbe riguardare, perciò, l’inventore; dopo si dovrà considerare l’invenzione.

La malattia psichica era presente nella famiglia Melville già nella generazione precedente e coinvolse senza dubbio lo stesso scrittore (vedi note biografiche). Per questo, il personaggio dello scrivano – la cui figura bellissima sembra manifestare una vita propria – può racchiudere alcune situazioni effettivamente intervenute nella vita di Melville. Ma, in ogni caso, la creazione artistica fornisce sempre una ri-costruzione simbolica della vicenda umana.

Il frammento della parabola esistenziale di Bartleby, narrato da Melville, si configura come una discesa agli inferi, in cui si susseguono: l’isolamento, l’abbandono di ogni rapporto, l’uscita dal gruppo sociale e infine la morte. È consentito immaginare una fase precedente l’isolamento, in termini di sofferenza/delusione, cioè una sorta di “lutto”. La discesa agli inferi, in termini psicoanalitici, implica lo sbandare progressivo nella depressione, fino alla schizofrenia e alla catatonia (es. Sigmund Freud, Lutto e melanconia, 1917; Sandro Gindro, Psicoanalisi Contro n.67, Il peccato originale, 1990)

Bartleby, al suo primo apparire nel vano della porta, attraverso la postura declama già qualche tormento: “Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida!” Quell’individuo chiuso – che subisce le villanie dei colleghi – suscita dapprima curiosità, poi rabbia, poi il sentimento di impotenza e infine una compassione che sprona il narratore a compiere un tentativo di strappare l’uomo al suo destino. Ma questo avviene in ritardo, quando lo scrivano è ormai scomparso dalla cerchia sociale.

L’andamento della vicenda, il modo in cui viene proposta, le incertezze del narratore indirizzano (me), con una certa forza, verso il mito di Orfeo (es. Publio Virgilio Marone, Georgiche, I sec. a.C.; Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, 1958). Nel racconto mitologico, Orfeo cerca di riportare Euridice nel mondo dei vivi: può riuscirvi a patto che non si volga mai indietro a guardarla, fin quando entrambi non siano usciti dall’Ade. Ma Euridice – che intende il comportamento di Orfeo come freddezza – teme di non essere più amata: perciò lo chiama con accenti strazianti e l’uomo si volge, perdendola per sempre. Il gesto di Orfeo è ambivalente; in modo simile il narratore “perde” Bartleby, a causa di un analogo gesto ambivalente.

Nell’ulteriore epilogo del mito, Persefone invia un messaggero ad Orfeo affinché lo renda consapevole di quale errore abbia commesso: il cantore disperato, rimane muto e solo, senza mangiare né bere, fino all’inedia e alla morte. Ma si racconta anche di un altro epilogo: Orfeo, nel ricordo di Euridice, decide di non unirsi mai più ad una donna e di vagare per i boschi in mezzo alle fiere, che placa con il suo canto. Ma altre donne – le Menadi – lo desiderano e lo cercano: al suo rifiuto, impazzite, lo aggrediscono, uccidendolo.

Una discesa verso l’Ade sopravvenne allo stesso Melville, proprio all’apice della fama: subito dopo la pubblicazione di Moby Dick, egli venne dimenticato dal pubblico dei lettori e non riuscì più a guadagnare da vivere con la scrittura. Bartleby fu l’ultimo racconto fortunato, che precedette il declino letterario tanto che, infine, lo scrittore rinunciò all’amore per le lettere e smise di scrivere in prosa. Divenne un semplice impiegato ed esercitò il ruolo di ispettore doganale nel porto di New York, con rassegnazione, dal 1866 fino al 1885.

Nel racconto di Melville vi sono molti elementi simbolici: il confronto tra il giovane pallidamente lindo e i colleghi sanguigni e volgari; lo sguardo sempre rivolto verso il muro, visibile attraverso i vetri della finestra; i biscotti allo zenzero, suo unico nutrimento, in contrasto con i pranzi abbondanti cui sono abituati gli altri impiegati; il precedente impiego nell’ufficio delle lettere non recapitate; lo stesso nome della strada “Wall streetla strada del muro. (Wall street formava il confine settentrionale dell’insediamento di Nuova Amsterdam – primario nome di New York –: nel 1653 scoppiò una guerra con gli inglesi e venne creato un vero e proprio muro di terra e legname alto tre metri e mezzo; il muro fu rinforzato nel tempo, e impiegato in molteplici occasioni come baluardo difensivo.

In qualche modo tutti gli elementi simbolici orientano il nostro sguardo verso il muro: esso rappresenta il rifiuto, la difesa ma, anche, la ricerca di un solido appoggio, che sia di riferimento e protezione.

Il muro innalzato da Bartleby appare improvvisamente evocato dalla celebre frase: “Preferirei di no!” pronunciata in risposta ad ogni richiesta che prevedesse uno spostamento, dal banco di lavoro a lui assegnato o dalle sue consuetudini. La frase è stata intesa, dagli infiniti commentatori che si sono succeduti nel corso degli ultimi centocinquant’anni, sostanzialmente in due modi: come una posizione esistenziale di chiusura, con la rinuncia a qualsiasi tentativo di affermazione individuale (es. Douglas Copland, Generazione X, 1991); oppure come di una scelta sociale che implichi l’apertura ad un possibile discorso “nuovo” (es. Sergio Benvenuto, Bartleby-Lafargue, 2016). E magari sono valide entrambe le interpretazioni. Alcuni si soffermano sul fatto che il “preferirei di no” sia – in fondo – meno categorico di un “no” puro e semplice: io non ne sono convinto. Il “no” si predispone ad uno scontro; il “preferirei di no” – soprattutto se ribadito più volte – assegna la responsabilità di un possibile scontro all’altro (spingendolo verso un atteggiamento di autocritica).

Ma, nel racconto di Melville, vanno in realtà analizzati due personaggi e due comportamenti: Bartleby (il malato) e l’avvocato-narratore (il terapeuta). Alla stregua di un trattamento analitico –  e suggestionato dal confronto con il mito antico – indovino l’errore commesso da Orfeo-narratore: l’avere provato, nei confronti dello scrivano-Euridice, compassione più che amore. L’enormità della distanza tra i due sentimenti innalza un muro di ambivalenza: la compassione è impastata di aggressività; l’amore ne è libero.

Riferisco di un “piccolo” caso clinico del quale mi sto occupando: l’aggettivo è dovuto alla considerazione che non si tratta propriamente di una psicoterapia; infatti, la persona di cui parlo è al di fuori della cerchia dei pazienti. Tuttavia si tratta di una persona che frequento regolarmente per (altri) motivi professionali. Una mattina, con sorpresa e qualche senso di allarme, rispose ad una mia richiesta proprio con la frase “preferirei di no”. Il ragazzo di cui parlo è una persona chiusa, che non confida nulla a nessuno, che non ride mai ed anzi evita di esprimere i propri sentimenti anche solo attraverso i gesti; ha un aspetto abbastanza dimesso. Visto il mestiere che svolgo, il senso di allarme mi ha indotto alla prudenza. Perciò non ho reagito in alcun modo al rifiuto, ma ho deciso di utilizzare il muro da lui innalzato, per un duplice scopo: comunicare il mio rispetto verso i suoi pensieri, qualunque essi siano; sbirciare al di là del muro in tutta tranquillità (come la curiosità invita a fare passando di fronte ad una casa recintata). La procedura richiede molta pazienza, ma sta producendo i primi frutti: se gli propongo qualche attività – piccola, ma di cui “canto” i particolari più interessanti – egli le svolge. Devo essere io a chiedere di riferirmi il risultato, altrimenti dissimula, ma se lo faccio, egli me ne parla volentieri. Certamente, almeno in apparenza, i ruoli sembrano ribaltati: io sono alle sue dipendenze (e da un certo punto di vista è proprio così). Ma, sbirciando al di là del muro, mi sono reso conto che l’ostilità che questa persona nutre nei confronti di tutti, deriva dalla paura di dover dimostrare “troppo”, di non mostrarsi all’altezza (si tratta di un atteggiamento di tipo paranoide): questa acquisita evidenza viene confortata dalla bontà dei risultati acquisiti.

Il mio giovane Bartleby è oppresso da una sofferenza/delusione: il muro fisicamente innalzato da lui è il libro che si ostina a leggere, invece di occuparsi di quanto gli viene chiesto; sbirciando oltre quel muro, mi accorgo però che egli ascolta tutto ed è in grado di ripetere, parola per parola, ogni discorso fatto.

Rimane il dubbio sull’origine della sua sofferenza/delusione; così come Bartleby. Ma è interessante notare come il comportamento di Bartleby costringa gli altri a fare i conti innanzitutto con la propria coscienza: il suo “preferirei di no” entra dentro come i raggi X e mette in evidenza una radiografia che obbliga ad osservare i propri difetti più profondi: indolenza, atteggiamento paranoide, ambivalenza. (pietro de santis)

P.S.      Per molto tempo Melville progettò di narrare la storia di una donna, Agatha, una sorta di Euridice: non portò mai a termine il progetto (Stuart Kelly, Il libro dei libri perduti, 2014). Egli ne delineava i contenuti nelle ultime lettere indirizzate ad Hawthorne, sollecitando l’amico a una sorta di creazione vicaria: è la storia inconclusa e inconclusiva di una donna abbandonata e derelitta. Curiosamente restano solo le lettere di Melville (conservate dall’amico) perché egli stesso distrusse tutte le risposte di Hawthorne. Forse Melville e Bartleby furono la stessa persona.

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