La Tempesta, con Giorgio Albertazzi

La Tempesta, con Giorgio Albertazzi

Albertazzi, nel ruolo di Prospero, mago e Duca di Milano spodestato dal fratello, per tutta la durata dello spettacolo “si muove su una sedia a rotelle, come un moderno Hamm beckettiano… Proprio dall’apparente fragilità fisica si sprigiona la sua imprevedibile Potenza; Potenza di pensiero e abilità esoterica incontrastabile” (note di regia).

Così in effetti appare il personaggio principale, sospinto senza tregua dallo spiritello Ariel, che in questo modo si procaccia l’affetto del protagonista e degli spettatori, per questa dedizione umana.

Ed in effetti tutto lo spettacolo ruota sulla voluta “ambiguità interpretativa”: Albertazzi, fragile vecchio, sembra non riesca a stare in piedi e mostra un bisogno di “oggettivo” di assistenza così come Prospero, per concludere la sua missione; ma la voce è bellissima.

C’è da parte dell’attore novantaduenne un ammiccare verso il pubblico; egli gioca con l’età, sfruttando le battute shakespeariane. Spostata nell’epilogo, la frase straordinaria:

“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni/ E la nostra vita breve è come sogno” (atto IV, scena III)

afferma una verità che è poetica ed abissale. Poi il protagonista conclude:

“Ora i miei incanti son tutti spezzati

e quella forza che ho, è mia soltanto
e assai debole. Ora senza dubbio
potete confinarmi qua,

o farmi andare a Napoli.

Non vogliate,

giacché ho riavuto il mio ducato
e perdonato al traditore, che io resti ad abitare
in grazia del vostro magico potere, questa isola;
ma liberatemi da ogni inceppo
con l’aiuto delle vostre valide mani.

Un gentil vostro soffio deve gonfiar le mie vele,
altrimenti fallisce il mio scopo
che era quello di divertire. Ora non ho
spiriti a cui comandare, né arte da far incantesimi,

e la mia fine sarà disperata
a meno che non sia soccorso da una preghiera
che sia così commovente da vincere
la stessa divina misericordia e liberare da ogni peccato.
E come voi vorreste esser perdonati di ogni colpa,
fate che io sia affrancato in virtù della vostra indulgenza” (atto V, epilogo).

Shakespeare scrisse La Tempesta a 47 anni e fu l’ultima grande opera: si trattò di una sorta di consapevole congedo dal pubblico e dal palcoscenico londinese, prima di tornare nella sua città natale di Stratford. Perciò la sua immagine si vede qui riflessa nel personaggio di Prospero, mago “bianco” capace di padroneggiare la materia tragica: gettando la bacchetta dichiara di mettere fine al mondo magico del suo teatro. La favola del drammaturgo era stata felice e felice doveva essere l’epilogo, nel segno di una libertà riconquistata: dopo aver suscitato musiche e incanti, apparenze mostruose e terrori, sarebbe tornato finalmente libero nell’aria, libero nel pensiero di una poesia non scritta.

Nella Tempesta la rappresentazione dell’artista viene espressa attraverso una trinità profana composta da Prospero (magia dell’invenzione), Ariel (genio poetico), e Calibano (desiderio puro non ancora educato o “energia pulsionale” per dirla alla freudiana).

La storia proposta è la seguente: Prospero, duca di Milano, per dedicarsi agli studi di magia, affidò il governo al fratello Antonio, che ne approfittò per impadronirsi del potere. Con l’aiuto del re di Napoli, Antonio imbarcò Prospero e la figlioletta Miranda su una carcassa di nave, abbandonata poi alla deriva in alto mare. La nave approdò in un’isola del mare Mediterraneo, abitata da Calibano, uomo-mostro, e da Ariel, spiritello aereo imprigionato nel cavo di un pino, dalla strega madre di Calibano. Ariel liberato da Prospero ne divenne il servitore. Questa vicenda viene narrata da Prospero ma nel momento in cui si alza il sipario sono trascorsi molti anni e Miranda è ormai una giovane donna, Alonso re di Napoli con suo fratello Sebastiano e il figlio Ferdinando, insieme ad Antonio e altri gentiluomini, passano con le loro navi presso le coste dell’isola Prospero coglie l’opportunità e – con l’aiuto di Ariel e della propria magia – scatena una tempesta e la nave del re rompe contro gli scogli.

I naufraghi si disperdono e raggiungono terra in luoghi diversi.

Ferdinando si crede unico superstite: cerca aiuto e si imbatte in Prospero che lo costringe a trasportare legna nella grotta, in cui vive con la figlia in modo che, vedendo Miranda, s’innamori della fanciulla e venga da questa riamato.

Negli stessi frangenti il re di Napoli piange il figlio, che immagina morto nel naufragio. Antonio vorrebbe cogliere vantaggio dalla situazione e persuade Sebastiano a uccidere il fratello re per impadronirsi del trono di Napoli; ma Ariel, inviato da Prospero, impedisce il delitto.

In un’altra parte dell’isola Stefano, dispensiere ubriacone del re, e Trinculo, giullare di Corte, incontrano Calibano. I tre complottano, a loro volta, di uccidere Prospero, ma il mago li disperde facendoli inseguire dagli spiriti che si manifestano in forma di cani.

Prosegue l’opera di magia e Prospero offre a Ferdinando e a Miranda, uno spettacolo meraviglioso che ratifica la promessa d’amore: poi traccia un cerchio nel quale si trovano raccolti tutti i dispersi.

La vicenda volge al il lieto fine: il mago chiarisce la sua identità, perdona fratello e re di Napoli; riacquistando il titolo di duca rinunzia alla potenza della magia e spezza la bacchetta vanificando ogni prodigio.

Da quell’istante ogni suono “magico” tace e la poesia di Ariel, non più vincolata al volere di Prospero, è finalmente libera di spendersi nell’aria.

Il fascino dell’opera risiede nelle pieghe della sua confusione e nella suggestione drammatica suscitata dal pensiero della morte; uno solo è consapevole della logica che governa il tutto: essa può essere svelata attraverso i ricordi.

Non si tratta, forse, di psicoanalisi?

Ma il bene ed il male, per quanto siano anche il risultato di scelte individuali, sono inevitabili: per questo è sempre necessario perdonare e chiedere il perdono.

Dalle note di regia di Daniele Salvo leggiamo: “La tempesta nasce in un momento molto difficile: un momento in cui tutto si confonde e degrada in una spaventosa superficialità, in un deserto umano assoluto. L’uomo di oggi è confuso, disorientato, frastornato da persuasori occulti, anaffettivo, comprato da una società che lo ha divorato, digerito, trasformato in cieco consumatore e prodotto di mercato. A capo chino bruchiamo la porzione d’erba a noi assegnata e dai nostri occhi, occhi di un popolo antico, non traboccano più la Poesia, la Cultura, la Forza del Pensiero, la Febbre dell’Arte. La nave affonda.”

In tale prospettiva pessimistica si comprendono le scelte registiche e scenografiche (Fabiana Di Marco), dei costumi (Daniela Gelsi) e delle maschere (Michele Guaschino) tutte orientate verso il brutto e l’oscuro. Le atmosfere, i movimenti e la recitazione concedono suggestioni tipiche delle storie “fantasy” che, sebbene coinvolgenti, risultano di scarso spessore e abbastanza deludenti, se si esclude la notevole scena iniziale della tempesta che, invece, sparge elementi di grandiosità ottenuti dall’incalzare delle battute, le luci (Luca Palmieri) ed alcune funi calate dal soffitto che aiutano il movimento concitato degli attori.

La personalità di Albertazzi giganteggia forse proprio in virtù della fragilità fisica: la sua recitazione è sciolta e libera – con le incertezze che divengono gioco teatrale – in perfetto contrappeso alla rigidità degli altri interpreti.

Come accennato all’inizio, ci è molto piaciuta la figura di Ariel (Melania Giglio), soprattutto per l’interpretazione della  dedizione a Propsero, da noi assimilata ad affetto (però nella memoria brilla un altro Ariel, quello reso splendidamente da Paolo Rossi nel 1985 con la regia di Carlo Cecchi).

Accomunati dalla valida professionalità tutti gli interpreti: Selene Gandini (Miranda), Federigo Ceci (Antonio e Calibano), Marco Imparato (Ferdinando), Massimiliano Giovanetti (Gonzalo), Mario Scerbo (Alonso), Simone Ciampi (Sebastiano), Francesca Annunziata (Capitan Sycorax e Francesco), Giovanna Cappuccio (Adriano).      pietrodesantis

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