La Lupa

La Lupa

Il sentimento di fascinazione suscitato dalla figura della Dea Madre, che alcuni studiosi legano al periodo del “matriarcato” – quell’ipotetica organizzazione sociale primitiva – è un contenuto antichissimo dell’inconscio sociale. Esso riaffiora sistematicamente dalle profondità più oscure dell’inconscio e si manifesta nel tempo, a partire dalle epoche più remote (Venere di Willendorf, 25.000 a.C.) fino ad oggi, attraverso le opere d’arte o i fatti di cronaca. Il mito coinvolge sempre tre protagonisti: la donna adulta, il giovane uomo e il giudizio morale (quest’ultimo rappresentato generalmente da una figura maschile dotata di qualche autorità).

Si possono suggerire esempi molteplici che coinvolgono tutte le arti: in ambito teatrale vogliamo citare la figura di Fedra (nelle varie versioni di Euripide, Seneca, Racine ed Anouilh) e quella de La Lupa (di Giovanni Verga) perché sono presenti nel cartellone romano di quest’anno; ma scorrendo qua e là nelle letture (la moglie di Potifar, in Sacra Bibbia, Genesi 39, 6-20), o nella filmografia (Misses Robinson, in Il Laureato, di Mike Nichols) abbondano esempi dall’antichità fino al mondo d’oggi. In essi, si ripete uno schema unico: incurante della propria reputazione o della vita stessa, la protagonista femminile intende sedurre un giovane uomo, dal quale pretende la complicità sociale e la dedizione assoluta che include l’abnegazione sessuale. L’esito è sempre tragico con sfumature che oscillano dal “semplice” rischio dello scandalo e dell’emarginazione (la moglie di Potifar, Misses Robinson) alla catastrofe assoluta (Fedra, La Lupa). L’incredibile successo ottenuto dalle varie rappresentazioni artistiche di tale figura potente, seduttoria ed impudica, è la conferma di come quell’immagine susciti un’emozione intensa in tutti e perciò rappresenti un contenuto dell’inconscio sociale tuttora radicato nei “cuori” degli esseri umani.

La novella La lupa fu inclusa da Giovanni Verga nella raccolta Vita dei campi, pubblicata nel 1880. La protagonista, Gnà Pina detta “La Lupa” è un’ammaliatrice aggressiva e immorale, la cui voracità sessuale è motivo di ironia e desiderio allo stesso tempo. Pina vuole sedurre Nanni, che le resiste perché già innamorato. Ma proprio il suo oggetto d’amore innesca lo sviluppo drammatico: egli, infatti, corteggia Mara, figlia della Gnà Pina. Mara è descritta come una “giovanetta delicata e triste”, antitetica alla figura materna: ella è consapevole della cattiva fama da cui si sente sopraffatta e rifiuta qualsiasi attenzione maschile, per la vergogna di essere assimilata alla madre. Ma la Lupa non arretra dinanzi a nulla; anzi coglie, nell’amore di Nanni per Mara, l’opportunità di soddisfare i propri desideri: perciò obbliga la figlia a sposare Nanni, al fine di averlo in casa e sedurlo.

I due giovani si uniscono in matrimonio e la Gnà Pina lascia in dote alla figlia alcuni campi coltivati a grano. Passa il tempo e, tra il rapporto “sacro” con la moglie e quello “peccaminoso” con la lupa, Nanni costruisce anche una solidità economica. Nasce il primo figlio a Mara e quando la donna è in attesa del secondogenito l’uomo decide di “emendarsi” dalle proprie colpe: un po’ pentito, un po’ consigliato dalla nuova condizione sociale, vuole allontanarsi da Pina e cerca, anche attraverso le tradizioni religiose, una nuova trasparenza.

In un pomeriggio estivo, sta per uscire la processione del santo patrono nella quale Nanni reciterà un ruolo importante a convalida della nuova immagine sociale: Pina attende che rimanga solo qualche momento per affrontarlo giurando di non lasciarlo mai; anzi lo esaspera invitandolo a compire l’unico gesto possibile per liberarsi di lei. Nanni la uccide.

Il grande successo ottenuto dalla novella, spinse Verga a ricavarne un dramma teatrale in un atto (rappresentato per la prima volta nel 1896); ma mentre il ritmo della novella è asciutto, efficace e travolgente, la sua riduzione teatrale risulta piuttosto debole: la maggior parte delle scene denuncia un carattere folcloristico, che si limita a descrivere la “vita dei campi” privando di spessore i molti personaggi secondari. Solo tre scene sono dotate di una certa energia: l’offerta di sé a Nanni, da parte di Pina; il dialogo tra madre e figlia per l’imposizione del matrimonio; l’epilogo dell’assassinio. Già le capacità drammaturgiche di Giovanni Verga ci sono sembrate poco efficaci; in aggiunta Micaela Milano ha alleggerito alcune scene, inutili per il pubblico d’oggi: la conclusione – piuttosto imbarazzante secondo noi – è che i due atti, articolati in otto scene, con otto interpreti, musiche di Massimiliano Pace, arrangiamenti di Franco Battiato, coreografie di Giovanna Velardi, si riducono alla durata complessiva di 55’.

Ci è venuta voglia di chiedere al Teatro Quirino il rimborso del biglietto, il cui prezzo non era per nulla ridotto.

Lina Sastri, bella e piena di carattere, ha interpretato il ruolo di una Lupa piuttosto addomesticata, esprimendo una lacerazione interiore, di donna scossa dai propri “istinti contrapposti”, che non corrisponde alla “cattiveria” priva di morale necessaria per definire il personaggio verghiano: secondo noi il dramma non racconta una competizione tra donne – neanche se madre e figlia – ma il puro desiderio nel suo aspetto “dionisiaco”, privo di (o precedente alle) leggi morali. Giuseppe Zeno (Nanni) è un bravo attore capace di mettere in mostra le dinamiche del cambiamento sociale – dalla povertà, alla piccola ricchezza – con le conseguenti nuove responsabilità civili: se ad un povero è lecito “rubare un pezzo di pane” e “fornicare” dietro agli orti senza cadere in discredito; per un abbiente è necessario conservare il consenso sociale. Ma il Nanni della Lupa non è questo, piuttosto è uno che lotta per riappropriarsi dei propri genitali, della propria vita; e si avverte la distanza dall’originalità della novella. Clelia Piscitello è stata una Mara esile e rinunciataria, mentre invece riuscire a resistere alla Lupa e rimanere vivi “deve” essere segno di un certo vigore.

Enzo Gambino, Eleonora Tiberia, Simone Vaio, Giorgio Musumeci, Valeria Panepinto e Giulia Fiume hanno interpretato professionalmente ruoli esigui.

Ci sono piaciute le scene all’antica e i costumi di Françoise Raybaud; nulla riusciamo a dire delle musiche né degli arrangiamenti che, con demerito, non abbiamo percepito: avanziamo riserve sulla regia di Guglielmo Ferro.

(pietrodesantis)

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