Wikipiera

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Tanto tempo fa, facemmo un viaggio in automobile con Mario Scaccia, il grande attore scomparso quattro anni or sono. Io sapevo, di lui, che era stato maestro elementare per un breve periodo, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale: la conoscenza di questo particolare accorciò le distanze e ci diede modo di iniziare una lunga conversazione. Egli, giustamente, ci considerava poco più che ragazzi – fatto anagraficamente scorretto, ma giustificabile per due motivi: la differenza d’età e la ridotta esperienza del mondo – per cui decise, fortunatamente, di insegnarci qualcosa della vita e del teatro.

In particolare, ci raccontò un aneddoto che lo accostava al grande Edoardo De Filippo; questi, quaranta anni prima, lo aveva catechizzato dicendogli che, in teatro, lavorano quattro esemplari di persone: gli artisti, per i quali il teatro si confonde con la vita; gli attori, professionisti seri e preparati che, finito lo spettacolo, tornano ad una esistenza normale; i comici, generalmente nati e cresciuti nell’ambiente, dotati di qualche capacità artistica; e le facce toste.

Gli artisti, aggiungiamo noi, in genere sono individui abbastanza inconsueti, per qualche precisa – ed inevitabile – scelta esistenziale. Mario Scaccia, omosessuale, era uno di essi.

Con questo non intendiamo dire che l’omosessualità debba necessariamente rappresentare una regola, ma una certa disinvoltura sensuale e sessuale sì: quel minimo di libertà e di disinibizione svolge la funzione di un paio di occhiali da vista.

La grande bravura di un altro nostro amico, Pino Strabioli, consiste in questo: essere capace di svelare qualcosa che è nascosto nella sensibilità degli artisti. Lo abbiamo seguito insieme a Franca Valeri, sul palcoscenico; insieme al nostro amato Paolo Poli, in televisione; gli abbiamo chiesto di recitare qualcosa che piaceva a noi e lo ha fatto con grande raffinatezza; l’abbiamo seguito di nuovo, in palcoscenico – martedì 6 ottobre –, insieme con Piera Degli Esposti.

Noi sappiamo che la vita è teatro – intendendo significare la vita quotidiana – così come il teatro “è” vita, per quanto spesso strambamente rappresentata: cioè rappresentata dal didentro. Sappiamo pure che, avere almeno un po’ di questa consapevolezza, aiuta a stare in buona salute (per quanto umanamente possibile).

Piera Degli Esposti ha fatto del teatro la propria vita e, viceversa, la sua vita è un’espressione teatrale. Sicuramente ciò dipende anche dalle personali vicende biografiche – poi romanzate in un libro scritto con Dacia Maraini e nel successivo film di Marco Ferreri – ma scaturisce parimenti da una scelta consapevole che ella fece non appena si seppe innamorata del teatro, comprendendone la capacità consolatoria. Quell’intuizione contribuì, prima di tutto, alla sua salvezza, poi alla sua arte. Ma sarebbe necessario sapere qualcosa di più sulla sua vita per comprendere.

La messa in scena di Wikipedia è un po’ autobiografica ma, nonostante l’aria colloquiale, costituisce un credibile atto unico: «Mio fratello Franco mi considera una redenta», risponde l’attrice in merito ai rapporti che la legano alla Chiesa. Inizia così lo spettacolo, con il commento all’ultimo lavoro: la lettura della Genesi in piazza Duomo in occasione del debutto della Chiesa Ambrosiana all’Expo di Milano offrendo, di Dio, una voce piena di calore; con il ricordo dei quarantotto minuti spesi in parole col Cardinal Martini; e della via Crucis col Papa; e dell’interpretazione di Maria, nella Rappresentazione della Passione di Calenda in giro per l’Italia.

Ci ha fatto sorridere lo spigliato e rispettoso rapporto con le alte sfere cattoliche ed il ricordo, simpatico per lei e anche per i sacerdoti – artisti di Dio –, della condivisione del camerino/sacrestia con i preti intenti a far telefonate per battesimi, matrimoni e funerali, mentre si denudava per indossare gli abiti di scena, separati da una tenda.
Lo spettacolo rende omaggio a Lucio Dalla (c’è la canzone “balla ballerina” nelle musiche di scena): fu compagno di scuola di Franco e amico e le dedicò una lettera piena d’affetto nel ricordo dei loro due maestri, moglie e marito, cui li legano un debito di gratitudine, per la meravigliosa, profonda e tenera istruzione primaria che ha loro illuminato il cammino. Racconta la voglia di stupire e di scandalizzare con la recitazione “aerea” di La figlia di Iorio e quella oscena di Molly cara, segno di resurrezione e ritorno al centro della scena, dopo una malattia che l’aveva tenuta lontana dal palcoscenico. Li recita con finta andatura decrepita, intrecciando insieme ai ricordi professionali quelli familiari dell’amato padre, per un’ora e mezza, in una scenografia essenziale: due sedie e un leggio. Per il finale Pino si allontana, lasciandola al suo pubblico con due piccoli gioielli: la lettura di Piselli con le seppie di Achille Campanile e l’interpretazione di Dondolo di Samuel Beckett. In nove minuti, che da soli valgono il prezzo dello spettacolo, Piera diviene altro: ironia, disincanto, disperazione.

La semplicità è un dono che appartiene a quanti sostengono che la felicità sia un diritto, da confermare quotidianamente rifiutando l’assillo della morte, con l’essere «vivissimi» dichiara Piera. Per questo, forse, ha anche così amato il ruolo di sarta, realmente interpretato prima di diventare attrice, inseguendo le proprie fantasie protetta dall’affetto paterno; come pure ha inseguito per tutta la vita il sogno di incontrare Robert Mitchum: «Ti amo da quando avevo quattordici anni», gli confessa in una lettera, «Tutto in te è ambiguo, osceno e speranzoso…», in particolare la pancia che si adagia sopra la cintura dei pantaloni. Ha realizzato questo sogno grazie a Lina Wertmüller, due anni prima che l’attore morisse: consacrò l’incontro non andando oltre un bacio, per lasciarne intatta la fragranza. Aveva, comunque, Robert, circa 80 anni: la vita è teatro.

Applausi a scena aperta.

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