Mio marito è un assassino

Mio marito è un assassino

di Sandro Gindro(1984), regia di Pino Strabioli

Sme (Esmeralda) è una donna frivola, ma sensibile e amante degli animali e della natura; chiusa nella sua esistenza domestica è profondamente e sensualmente legata al marito Dru (Asdrubale), che la ricambia con pari intensità. Asdrubale è totalmente dedito al lavoro, in cui riversa ogni frammento di tempo spendendosi per progettare e portare a termine le proprie attività. Il lavoro che svolge è piuttosto complesso e lo porta a intrecciare rapporti con un gran numero di persone di cui, talvolta, dimentica persino l’esistenza: fa l’assassino.

La scena è ambientata in una casa borghese piuttosto ricca, è la casa di un antiquario. Entrano due clienti – madre (Livia Bartolucci) e figlia (Vittoria Rossi) –, destinate ad essere le prossime vittime. In un’altra stanza Dru (Pino Strabioli) racconta a Sme (Sabrina Knaflitz) di come abbia ucciso una vecchina annegandola nella polenta. Sme sviene in continuazione turbata non già dalla violenza dei gesti – tuttavia sempre cortesi e rispettosi delle forme – narrati dal marito, ma al pensiero della vicina di casa, che strappa le tenere foglioline di basilico dalla pianta: una tortura tremenda.

Siamo alla vigilia di Natale e, inattese, arrivano anche altre visite: una donna (Elisa Angelini) che cerca il famoso sarto Asdrubale; una ragazza (Chiara Aita) che insegue il parroco Asdrubale ed un uomo (Francesco Pezzella) che chiede del grande psicoanalista Asdrubale. Preso nel vortice Dru tenta di gestire la situazione: manda le due ospiti in un’altra stanza e dà appuntamento agli altri dinanzi al portone del palazzo. Si prepara all’omicidio di tutti quanti, per evitare il rischio di essere individuato come assassino: parlando con Sme, distrattamente associa la ragazza ad un uccellino (perché la ragazza si esprime solo cantando) e questo dà l’avvio ad una catena di turbamenti, che porta Sme e Dru ad accorgersi di come gli esseri umani somiglino agli animali e alle piante e siano, perciò, capaci di soffrire.

Pentiti delle violenze inflitte a tanti esseri simili ad animali, decidono di cambiare vita e tornare all’attività precedente: ma Dru si accorge, con disperazione, che tolte tutte le maschere dell’assassino non ricorda più la propria identità.

Però è la vigilia di Natale e Sme lo convince a coricarsi insieme e ad abbandonarsi all’unica certezza della loro esistenza: il reciproco amore.

Lo spettacolo è stato particolarmente gradevole; straordinari Pino Strabioli e Sabrina Knaflitz, giustamente stralunati e sospesi tra la banale opacità della vita borghese e il paradosso di segreti piuttosto ingombranti; sapiente è stato il tocco registico che ha saputo far brillare i comprimari; ma ci sembra interessante raccogliere alcuni dei significati che l’autore ha riversato nella pièce.

È innanzitutto sottolineata l’ipocrisia di una società borghese che tollera (e approva) qualsiasi nefandezza purché sia vestita alla moda o si genufletta nel tempio (dedicato a Dio o al denaro non importa).

Ugualmente sottolineata è la banalità del male: ognuno si autoassolve da ogni peccato – e viene assolto dal gruppo sociale – purché accarezzi un cagnolino o annusi il profumo di un fiore: ciò è implicitamente ribadito in ogni rotocalco televisivo che approfondisca le personalità, degli autori di qualche omicidio, attraverso le immancabili “testimonianze” di vicini che affermano “di non avere mai notato nulla perché sembravano persone normali”.

Quest’argomento introduce inevitabilmente il tema del narcisismo dei gruppi famigliari. Ci si vuole convincere che tutto ciò che avviene in famiglia sia “la cosa migliore” a priori: per questo è bene evitare i confronti al di fuori delle occasioni rituali e al di là dei segni convenzionali: abiti, sorrisi, buoni comportamenti soprattutto quando ci si siede a tavola (anche se ora quest’ultima attenzione è stata ostituita da una nuova convenzione che consente ai bambini qualsiasi maleducazione “purché mangino”).

Gindro esplicita la relazione tra l’identità, nella sua veste sociale, e il potere: l’assassino, protagonista della pièce, sceglie il ruolo da recitare in base al potere che glie ne deriva, al fine di commettere il delitto. In questo il testo rivela una profondità inattesa: ci lascia intendere che uno dei motivi che spingono verso la scelta di un’identità, di un ruolo, è anche quello di uccidere o almeno violentare. Il bidello vuole uccidere il professore, per invidia; il garzone del lattaio vuole uccidere il cane, per rabbia; il segretario del ministro vuole uccidere il ministro per ambizione: o almeno ciascuno vuole costringere qualcun altro a compiere gesti che appaghino il proprio desiderio di potere.

Infine la perdita dell’identità: se non è in relazione con qualcuno o con un compito da condurre a termine – fosse anche un videogioco – l’essere umano scompare; scompaiono i suoi pensieri. Dietro un ruolo – una maschera – ce ne deve essere un altro e poi ancora uno, altrimenti si affaccia il nulla. Solo l’amore salva. (pietrodesantis)

“Contessa, che è mai la vita?
È l’ombra d’un sogno fuggente.
La favola breve è finita,
Il vero immortale è l’amor.” (Giosuè Carducci, Jaufré Rudel)

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