Un flauto magico

Un flauto magico

Peter Brook  è forse il regista più importante al mondo in questo momento; essendo onorati dell’amicizia di una grande attrice italiana, abbiamo approfittato della sua influenza sulla Direzione del Teatro Argentina per assistere alla prima romana dello spettacolo tratto dal Flauto Magico di Mozart.

Il regista, in disaccordo con Mozart, ne ha fatto un’opera da camera (senza orchestra) con il pianoforte in scena; in accordo con Mozart ha mantenuto i personaggi principali; in disaccordo con Lui ha fatto a meno delle tre Dame, dei tre Fanciulli e del serpente spaventoso; in accordo con Lui ha inserito due commentatori della storia (due attori) per guidare Tamino e Papageno; in disaccordo con il musicista austriaco ha inserito (adattandolo alle modifiche) il testo parlato in lingua francese; in accordo con il musicista austriaco ha mantenuto le arie in lingua tedesca. Infine, due nerissimi attori sostituivano le biondissime dame e i nivei fanciulli ma, in compenso, ha fatto diventare il nerissimo (schiavo) Monostatos un bianco violento e violentatore.

La leggerezza e la poesia espresse dal Flauto Magico mozartiano sono (comunque) esaltate dalla semplicità cercata nell’impostazione registica e dalla giovinezza e bravura di tutti i giovani interpreti, che si muovono agilmente e con precisione (non come la gran parte dei presuntuosi cantanti lirici) tra gli oggetti elementari dell’allestimento scenico. Quest’ultimo consiste (oltre al pianoforte e al pianista) solo in un certo numero di canne di bambù, dotate di piedistallo e spostate dagli interpreti per simboleggiare un bosco, una stanza, una prigione, un tempio e spazzate in un colpo dal ruotare improvviso di un bastone (la tempesta) nell’epilogo tragico che, però, si trasforma in una sorta di riconciliazione tra Sarastro e la Regina della Notte. A confermare la scioltezza degli interpreti vi è anche il ringraziamento finale, nel quale tutti indistintamente (pianista compreso) entrano ed escono di corsa dalle quinte.

Lo spettacolo è bello, poetico e divertente, avendo (il regista) trasformato volutamente in giocoso ogni aspetto drammatico. La partitura orchestrale è stata adattata al solo pianoforte da Franck Krawczyk, che ne ha fornito una versione moderna ed orecchiabile, rispettandone le linee melodiche.

Rimane una perplessità: perché una favola viene trasformata in un’altra favola (quasi completamente simile alla favola originaria)? I miei amici respingono la perplessità tacciandomi (quasi) di blasfemia come se volessi negare l’evidenza dei fatti della gradevolezza dello spettacolo. Che questo sia stato realmente gradito a tutto il pubblico, lo si è percepito anche dal piacere che, in simili casi, dimostrano gli spettatori  sostando nel foyer (o appena fuori) del teatro per commentare con calore (e addirittura entusiasmo) le vicende sceniche.

Ma la perplessità rimane a partire dal titolo: “Un” flauto magico che suggerisce “una” lettura (interpretativa) “del” Flauto Magico. Per esempio l’ingresso iniziale di un attore (nero) che impugnando il flauto spaventa Tamino, sembra un riferimento al razzismo; ma anche la scelta dell’interprete (bianco) Monostatos, il solo a cantare con voce non impostata, rimanda ad un concetto di razzismo e di sopraffazione consumistica, caratteristici della nostra cultura. Se la Regina della Notte non sprofonda negli inferi ma, invece, è riconciliata con Sarastro che le porge la mano, sarà forse segno di un riconoscimento del “maschilismo” (femminismo) di cui è comunemente intrisa la nostra cultura. “Un flauto magico” rappresenta un mondo riconciliato grazie ai due spiriti (neri) amici di Sarastro e, forse, anche questo vuole avere un suo significato. Però si dimostra razzista (in questo caso io) anche colui che divide gli individui bianchi e neri invece di riconoscere solo persone (“Omnia munda mundis”); anche se nel testo originale del flauto magico, i personaggi siano proprio scelti in quel modo: (per questo) mi chiedo come mai Peter Brook non abbia voluto affrontare “Il” Flauto Magico nella sua completezza, ma lo abbia voluto semplificare (e reinterpretare).

Uno dei miei amici sostiene che (finalmente!) ha capito la vicenda del flauto magico e che (finalmente!) non si è annoiato: sostengo (io, invece) che lo spettacolo di Peter Brook è intellegibile solo in virtù della vicenda musicale mozartiana, divenuta patrimonio della cultura e contenuto dell’inconscio sociale; altrimenti avrebbe vacillato. Concludo (perciò) raccomandando a tutti di vedere l’opera del maestro inglese, raffinato regista ed artista, che penso abbia voluto legare il proprio nome a quello di Mozart senza intermediari (direttori d’orchestra o cantanti famosi) scegliendo felicemente gli interpreti, il pianista compositore, i collaboratori. La sua vita è stata un flauto magico.
Un flauto magico
da Wolfgang Amadeus Mozart;
libero adattamento di Peter Brook, Franck Krawczyk e Marie-Hélène Estienne;
regia Peter Brook;
luci Philippe Vialatte;
al pianoforte si alternano Franck Krawczyk  e Matan Porat;
con (in alternanza) Dima Bawab, Malia Bendi-Merad, Leila Benhamza, Luc Bertin-Hugault, Patrick Bolleire, Jean-Christophe Born, Raphaël Brémard, Thomas Dolié, Antonio Figueroa, Virgile Frannais, Betsabée Haas, Matthew Morris, Agnieszka Slawinska, Adrian Strooper, Jeanne Zaepffel ;
attori William Nadylam, Abdou Ouologuem

Ssst! fate silenzio: in alto le note di Mozart, la sua musica leggera, fine e sorridente.

(Pietro De Santis)

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