Un sogno nella notte dell’estate di William Shakespeare

Un sogno nella notte dell’estate di William Shakespeare

uno spettacolo di Massimiliano Civica, prodotto da Teatro Stabile dell’Umbria | Compagnia Il Mercante, con il sostegno alla produzione di Romaeuropa Festival 2010; lo spettacolo è dedicato alla memoria di Andrea Cambi.

Si legge nella presentazione: “Una nuova traduzione diversa fin dal titolo, una regia essenziale nella scenografia, nei costumi e nei pochi e ricercati oggetti di scena, una interpretazione contemporanea degli spogli teatri dell’età elisabettiana, svelano l’approccio di un regista che vuole portare il testo al centro della scena. Civica guarda al genio di William Shakespeare come all’autore di straordinarie sceneggiature da sottrarre alle incrostazioni letterarie e restituire a una piena dimensione teatrale. Un sogno appare un banco di prova privilegiato perché è inteso da questo regista anche come un trattato sull’immaginazione: «L’immaginazione degli innamorati – spiega Civica –, che vedono le cose come non sono, l’immaginazione del sogno, che trasfigura le nostre esperienze e sensazioni nel volto dei personaggi dei miti, ma soprattutto è l’immaginazione del drammaturgo che dà ordine e forma al mondo creando quell’armonia di cose discordanti che è Un sogno nella notte dell’estate».”

Si entra in sala e si vede la scena a sipario aperto: due file di sedie davanti alle quinte, perpendicolari alla platea; un boccascena poggiato al fondo come elemento scenografico, con il relativo sipario chiuso, dai tendaggi neri.

Se ne trae l’impressione, modesta, di uno spettacolo “liberamente tratto” da Shakespeare perché si vorrebbe piuttosto immaginare un bosco nonostante sia opportuno ammettere che il testo, pur se ambientato in un bosco, tratti comunque di teatro nel teatro.

Entrano sette attori vestiti (idealmente) come greci antichi, ma i costumi – almeno quelli femminili – risultano sbagliati: tutti indossano il chitone (tunica corta al ginocchio) mentre le donne dovrebbero vestire il peplo (tunica che arrivava a coprire il piede).

La recitazione lascia abbastanza perplessi: gli accenti dialettali sono pesanti, riconoscibili come originati nel profondo sud e nel profondo nord dell’Italia; imbarazzante la tecnica vocale: rigida ed inespressiva (quasi una prima lettura).

Ad un certo punto i sette si siedono “scomparendo” idealmente dall’area di recitazione e comprendiamo che le sedie stanno al posto delle quinte – ma allora le quinte stanno al posto di cosa? – ed entrano sei personaggi vestiti come ragazzi d’oggi, per i quali il traduttore-regista si è sbizzarrito con i nomi, poco greci e poco elisabettiani; e con i caratteri: ad esempio un personaggio entra indossando una larga maglietta, nella quale nasconde anche la testa ed è timido e affettuoso. Il nome attribuito al personaggio, Luca “Micione” (Luca che fa le fusa), si può leggere come “Lu camicione” (quello che indossa la camicia larga). Si può pure immaginare che questi personaggi stiano – più o meno – dentro all’idea shakespeariana, ma ci sembra una libertà gratuita a meno che “le incrostazioni letterarie”, cui fa riferimento la presentazione non riguardino proprio il testo originario.

Tanto i personaggi “Greci” risultano rigidi, altrettanto gli “Hiphoppers” sembrano sregolati e anche sgretolati: questo getta luce sull’idea registica degli opposti estremi: rigidi, antipatici, improvvisati quelli che dovrebbero interpretare sapienza ed armonia; fluidi, divertenti, tecnicamente bravi quelli che dovrebbero rappresentare insipienza e follia.

“E ci risiamo!” insinua una vocina nella testa “la solita favola della follia rivoluzionaria”. Per fortuna, in mezzo tra i due mondi se ne presenta un terzo: quello degli elfi e degli spiriti.

Il regista rappresenta il sogno come unico mondo reale: è, esso, il luogo dei desideri; meglio, è il luogo in cui i desideri possono trasformarsi in realtà e, questo sì, in buon accordo con la drammaturgia Shakespeariana (e non solo).

Shakespeare, come ogni grande artista, era un esperto di psicoanalisi, cioè di analisi dell’inconscio. L’inconscio è – e fu – presente da sempre: almeno da quando esiste l’uomo. Il merito di Sigmund Freud fu di nominarlo e di immaginare una tecnica capace ad analizzarlo: gli artisti, però, lo avevano preceduto dalla notte dei tempi.

Nel testo di Shakespeare l’inconscio gioca con l’amore: quattro giovani amici, innamorati e scontenti, si rincorrono nel bosco fatato del re degli Elfi Oberon che, a sua volta, vuole riconquistare la regina Titania. In quella notte fatata il desiderio d’amore si presenta per quello che è: ambiguo, polimorfo, profondo, senza regole, attratto dal piacere e ostile al dovere.

Oberon incarica il folletto Puck suo servitore – rappresenta il sogno –  di confondere per riordinare: e quello combina e scombina; appare e scompare; sottomette il mondo e lo sconcerta, libero dal peso del pudore.

Fa accendere la regina Titania di straordinaria passione per uno degli attori (Bottom, detto Culo in questa versione) trasformato in uomo-somaro (animale la cui potenza sessuale è celebrata persino nei miti) che ne soddisfa i desideri e la “risana”. Nello stesso tempo magico i quattro giovani ateniesi, scatenati dal fluido di Puck, ardono nella sete di un rapporto orgiastico che ne attenui la febbre dionisiaca, già in precedenza maldestramente nascosta tra promesse e doveri.

Le poche ore di abbandono della notte d’estate sono sufficienti per ricondurre tutti, smaltita l’ebbrezza, ad un possibile equilibrio tra emozioni e ragione.

Nel sogno è realizzabile tutto, ma soprattutto ciò che le convenzioni sociali proibiscono: scompare la paura della goffa nudità mentre cadono gli indumenti pesanti indossati nella quotidiana intenzione di non essere riconosciuti.

Il coraggio di mostrarsi innamorati – di un “asino” o di una persona del proprio sesso – attraverso la finzione teatrale viene offerto in prestito a tutti gli spettatori, almeno per un’ora, secondo la classica teoria della catarsi. Alla fine tutto si ricompone: i promessi mantengono fede alle promesse; gli attori improvvisati manifestano la propria buffoneria affinché il mondo ritrovi il proprio ordine, pacificato ed un po’ meno irrigidito.

Il testo di Shakespeare è come una seduta di psicoanalisi; lo spettacolo messo in scena da Massimiliano Civica, invece, peccava proprio in quello che dichiarava di evitare: ha utilizzato tutte le possibili incrostazioni letterarie (dal minimalismo fino all’incursione nel teatro No giapponese) per sfuggire al testo. Ma, si sa, l’inconscio….

Gli attori erano: Elena Borgogni, Valentina Curatoli, Nicola Danesi, Oscar De Summa, Mirko Feliziani, Riccardo Goretti, Armando Iovino, Mauro Pescio, Alfonso Postiglione, Angelo Romagnoli, Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini.

Costumi Clotilde; oggetti di scena Paola Benvenuto; maschere Atelier Erriquez & Cavarra; tecniche del corpo Alessandra Cristiani; tecniche della voce Francesca Della Monica; supervisione tecniche di ventriloquismo Samuel Barletti.

(pietro de santis)

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