Pene d’amor perdute

Pene d’amor perdute

pene-damor-perdutedi William Sheakespeare
regia Stefano Artissunch
sabato 31 gennaio al Teatro Municipale di Morrovalle

Quando abbiamo letto il cartellone della stagione teatrale di Morrovalle, ci siamo subito domandati come sarebbe riuscita la compagnia delle Synergie Teatrali a mettere in scena quel testo così complesso, ricco di movimenti e pieno di personaggi (sarebbero almeno quindici) su di un palcoscenico tanto piccolo; la risposta l’abbiamo avuta lo scorso sabato: male.
Male in arnese si presentava la scenografia, inevitabilmente troppo angusta e approssimativa; male si prestavano i movimenti corali in un piccolo spazio affollato: ne è risultato uno spettacolo diverso da quanto il testo originale lasci presagire e anche dagli intenti dichiarati nella presentazione: “Per questo allestimento il regista Stefano Artissunch” si legge nelle note della compagnia “ha deciso di ricreare nello spazio scenico un’atmosfera da sogno con cascate di luci luccicanti riversate sul palcoscenico a significare l’amore di cui l’uomo ha bisogno per sopportare e condurre una vita in piena armonia con gli elementi della natura. La scenografia è dinamica nel senso che si compone davanti agli occhi dello spettatore magicamente con lo scorrere delle varie scene quasi a voler raccontare l’evoluzione dei sentimenti dell’uomo. Intenso si preannuncia il lavoro sui personaggi per sviluppare una recitazione molto schietta e ritmica adatta ai giochi linguistici dell’opera. A corollario del tutto un’attenta ricerca di particolari atmosfere musicali chiude la partitura scenica.”

Il testo sheakespeariano è un “pretesto” per parlare dei contrasti tra intelletto e passione, dovere e amore, giovinezza e maturità, maschile e femminile ironizzando sugli uni e sugli altri con la felice invenzione linguistica tipica del teatro elisabettiano e dello stesso periodo storico.
La trama è questa: il giovane Re di Navarra impone ai suoi compagni più fedeli un periodo di astinenza e studio, senza che le pene d’amore intralcino i pensieri e le azioni, il cui fine è la preparazione al governo illuminato ed alla vita retta. Redatta una regola e proposte le punizioni, il Re stesso viene immediatamente messo alla prova dall’arrivo della bella principessa di Francia, accompagnata dalle damigelle, in ambasciata per conto del Re suo padre. Il Re di Navarra ed i suoi compagni si dibattono come pesci presi nella rete del proprio desiderio, credendo, invece, di difendersi dalle tentazioni delle belle dame, molto più munite di filosofia pratica e potere seduttivo di quanto i cavalieri non si dimostrino ricchi di convinzione.
La filosofia femminile, dopo svariati intrecci comici ed equivoci brillanti, prevale su quella maschile e ne prende il posto; ma il destino prevede un altro epilogo: la morte improvvisa del Re di Francia richiama la principessa al suo ruolo regale ed essa, pur tra sospiri e lacrime, non mostra alcun dubbio nella scelta del proprio dovere e lega, questa volta con il vigore delle proprie convinzioni, il re ed i suoi compagni alla stessa promessa precedentemente infranta: attendere un lungo anno allo studio ed alla filosofia, per dimostrare la dignità del proprio amore troppo facilmente dichiarato nei tiepidi giardini primaverili.

Molteplici letture sono state proposte da quanti hanno affrontato il testo: che dimostri come il parlar bene non sempre sia sinonimo del viver bene, a causa del potere e dell’ambiguità del linguaggio; che il gioco della seduzione è un sortilegio felice, ma breve e si esaurisce “nel bel mezzo di un gelido inverno”; che le pene d’amor perdute siano un sogno che emerge da un cassetto della memoria, lontano dalla quotidianità e dal dolore; che rappresenti lo scontro tra seduzione e castità e dimostri il potere travolgente dell’amore; o che, infine – come propone Artissunch –  rappresenti il bisogno d’amore per vivere in armonia con gli elementi della natura.
Di interpretazioni ne vogliamo aggiungere ancora una, che affonda nell’inconscio sociale. Parto da un ricordo evocativo: Odisseo avvicinandosi all’Isola delle Sirene ordina ai suoi compagni di legarlo all’albero della nave e di non scioglierlo per nessun motivo mentre essi, le orecchie tappate di cera, remano verso il mare aperto: così egli può ascoltare il loro canto senza cedere e morire (Odissea, Libro XII, versi 148-249).
Lo stesso episodio viene citato da Sandro Gindro: Odisseo aveva ascoltato il canto delle sirene, un canto come tanti altri né più bello né più brutto, ma finse di contorcersi dal desiderio, per non deludere i compagni (La sedia e il mondo, Tutto il teatro, pag 456).
La bellezza del canto delle sirene è un luogo comune dell’inconscio sociale (il piacere contrario al dovere) ed è un limite ed una condanna tanto per gli uomini quanto per le donne: le donne sono costrette a cantare, cantare… e gli uomini a contorcersi, contorcersi…  o viceversa (anche).
Per questo il piacere non va mai contrapposto al dovere: sembra prevalere il piacere; prevale invece – e malamente – il dovere, attraverso il meccanismo dei sensi di colpa, della rabbia e del ricatto; meccanismo psicologico o somatico (meglio se psicologico).
Il piacere “deve” avere un proprio spazio, magari circoscritto, ma extraterritoriale ed intangibile. Come afferma questo, Sheakespeare? Attraverso i molteplici filosofi e buffoni surreali che costellano sempre le sue opere: in questa, i personaggi di Zucca e di Armado.
Immaginiamo Sheakespeare, come tutti i grandi artisti, capace di un’intelligenza psicologica profonda, esercitata attraverso le osservazioni della vita quotidiana; pensiamo, perciò, che “Pene d’amor perdute” sia un’ulteriore trasposizione, forse anche inconsapevole, dello stesso concetto omerico dell’isola delle sirene: scivolare nella banalità dell’inconscio sociale, significa precipitare nella sofferenza.

Per tornare alla messa in scena di sabato, non ci è piaciuta la riduzione del testo e non ci è piaciuta Marina Suma: pur se è una donna bellissima, il cui corpo statuario è ancor più attraente di qualche anno fa, drammaturgicamente non è credibile; non sono accettabili, a questi livelli, le sue difficoltà di dizione e l’eccessiva rigidità che le impedisce di essere espressiva.
Teatralmente interessante è risultata la chiave interpretativa di Stefano Artissunch, nel duplice ruolo guittesco di Zucca e di Boyet (en travesti), che è riuscito a trascinare e divertire il pubblico.
Non ci è piaciuto – e generalmente non ci piace – il tentativo di suscitare il riso ed il consenso degli spettatori attraverso ammiccamenti e volgarità da avanspettacolo: riesce sempre, o quasi, perché il pubblico è ormai diseducato dall’eccesso di televisione, ma si tratta di un cattivo servizio fatto a sé stessi e agli altri, soprattutto quando si eliminano le battute troppo serie, perché incomprensibili in quel contesto. Così è accaduto in questa messa in scena che ha omesso la splendida e drammatica frase finale, che il più stralunato tra i personaggi – Armado – deve dire rivolto al pubblico: “Le parole di Mercurio sembran stridenti dopo il canto d’Apollo. Voi da quella parte, e noi da questa”, gettando addosso a tutti un macigno di riflessioni. Cosa che volentieri facciamo anche noi.
Le musiche sono state tratte dal repertorio della musica pop più o meno recente ispirandosi liberamente, forse, all’idea del musical cinematografico di Kenneth Branagh.
Riteniamo onestamente bravi tutti gli attori, con una bella presenza scenica soprattutto di Biron – Gian Paolo Valentini ma, purtroppo, hanno pagato il dazio di una messa in scena un po’ approssimativa, viste le dimensioni del palcoscenico, che ha lasciato pensare troppo ad una prospettiva amatoriale.

I protagonisti di Pene d’amor perdute sono stati: Stefano Artissunch e Marina Suma con Alessia Bedini, Piergiorgio Cinì, Stefano De Bernardin, David Quintili e Gian Paolo Valentini.

pietro de santis

I commenti sono chiusi