Roma capoccia
Negli ultimi centocinquanta anni, la nostra bella città ha conosciuto parecchie disgrazie: dagli architetti piemontesi nei primi del ‘900; a quelli fascisti nel celebrato ventennio; a quelli democristiani, dagli anni cinquanta in poi l’antica capitale del mondo occidentale – bellissima, da un metro e mezzo d’altezza in su oppure da un metro e mezzo di scavi in giù – ha conosciuto un degrado via via più demoralizzante, aggravatosi a partire dal duemila. Esordì, subito dopo l’ingresso del nuovo millennio, un sindaco di sinistra che cercava, attraverso la visibilità fornita dalle architetture al di qua e al di là del Tevere, la propria scalata al potere nazionale: senza successo e con molte distruzioni (sono ancora aperti i lavori per un meraviglioso parcheggio sul lungotevere tra Piazza della Libertà e Piazza del Popolo).
Successivamente, fu la volta di un sindaco di destra salito al potere capitolino con lo stesso intento, e votato a piccole distruzioni parallele a favore di amici e conoscenti (ma che, però, fece potare quasi cinquemila bellissimi alberi che, con qualche defezione recente, ornano i viali cittadini). Poi fu la volta di un prudentissimo e lentissimo sindaco di sinistra, incapace di decidere nulla che non fosse uno scontro di potere (a parte la caligolesca elezione a senatore romano del proprio personale cavallo meccanico); per finire con la prima sindaca né di destra né di sinistra né di nulla, prudentissima ed incapacissima di prendere la minima decisione a favore o contro qualche potere, ma riservandosi di scaricare l’onere di tutto sulle spalle della povera cittadinanza urbana: abituata, questa, a chinare il capo dal 476 d.C. in avanti non senza responsabilità né piccoli individuali abusi di potere (come Ricciotto de la Ritonna di Giuseppe Gioachino Belli – e mi raccomando una sola c – sa ricordare).
Allora: questa città, meravigliosa da un metro e mezzo in su o in metro e mezzo in sotto, attualmente sopravvive grazie alla benedizione/maledizione del turismo, così ormai come Venezia e quasi tutte le città italiane. Intorno alla mia abitazione – fortunatamente posta vicino ai Musei Vaticani – c’è un pullulare di uffici privati per il turismo; fast food dignitosissimi o indecentissimi; negozietti che vendono dodici corone del rosario (provenienti da Taipei) a dieci euro per i regali personalizzati; file lunghissime che si dipanano nel vento, nel sole e nella pioggia oltre a qualche raro, residuale, negozio di qualità e il meraviglioso mercato Trionfale.
Uno di questi negozi di qualità ci ha procurato – tristemente – una delusione che non ricordavamo da anni. Si tratta di un’enoteca, ottima e ben fornita, che la sera si offre come ristorante (quasi) di lusso, dall’arredo (quasi) elegante e dai prezzi alti (senza incertezze).
Dall’ultima volta che vi cenai erano passati dieci anni, credo; ma dall’ultimo acquisto di vini e rhum, ottimamente consigliati per qualità e prezzo, sono trascorsi solo pochi giorni. La sera di mercoledì 24 aprile ho avuto il desiderio – preciso – di tornare a provare la cucina che, anni fa, non mi aveva entusiasmato ma che però, unita alla qualità dei vini, prometteva un’esperienza comunque gradevole.
Una cameriera gentilissima e graziosa, con un probabile passato di danza classica, si è presa (quasi) cura di noi suggerendo, mentre sceglievamo dal menu, un ottimo piatto di affettati che però – ingenuamente – non abbiamo ordinato.
Abbiamo ordinato invece due antipasti: seppie scottate con piselli, ravanelli e chorizo; carciofo alla romana con ripieno di baccalà, guarnito di alici fritte; un primo: linguine alla crema di cavolfiore e bottarga; un secondo: petto di anatra al fois gras (o fegato d’oca? il dubbio rimane) sopra un letto di crema di patate. Insieme ai cibi abbiamo scelto un Bianco della Val d’Aosta Petite Arvine Les Cretes (13,5°) per gli antipasti; un Verdicchio dei Colli di Jesi Le Oche (14°) per le linguine ed un di Lacrima di Morro d’Alba Vicari (13.5°) per la carne. I vini erano buoni, ma il calice per il rosso era sbagliato: lo dico perché, al tavolo di fianco, il cameriere ha servito il calice giusto e perciò deduco che quest’elemento faccia parte del sapere.
Purtroppo molto più triste è stato il confronto con i cibi, che annoveriamo a pieno diritto nel degrado di Roma capoccia (der monno infame aggiungerebbe Antonello Venditti): la seppia scottata era di buona qualità (per merito suo) ma salata e il chorizo incartapecorito e non commestibile come le sottili fette di ravanelli; il carciofo alla romana era solo bollito ed insapore e il baccalà di buona qualità (per merito suo) era stato sminuzzato e infilato dentro senza tanti complimenti e le alici fritte erano cartapesta immangiabile (forse raccolte da una delle tante case romane venute alla luce negli scavi della metropolitana). Il carciofo caldo insapore, con il baccalà freddo e acquoso, ci ha riportato alla mente la mia favolosa pasta bollita, messa nel piatto con una scatoletta di tonno appena aperta, versata sopra.
La speranza nei piatti successivi si è dimostrata fallace: le linguine erano annegate in una brodaglia cremosa, quasi insapore, di cavolfiori tanto che la bottarga – in quantità minima – non riusciva a scuoterne il sapore e nemmeno alterarne il colore biancastro. Il petto d’anatra, di buona qualità (per merito suo), era accompagnato da fegato d’oca (o fois gras?) fritto (crediamo) e assolutamente e misteriosamente insapore, a parte la cognizione del grasso.
Disgraziatamente la gentile cameriera ci ha chiesto se eravamo rimasti soddisfatti: uno di noi due, che non sa resitere, ha risposto di no. La gentile cameriera ha insistito domandando come mai: sempre lo stesso di noi, che non riesce a tacere, ha espresso una decisa perplessità sui sapori. Il silenzio gelido che ne è seguito è stato esplicito.
Noi siamo sempre educati e cerchiamo di essere affettuosi nonostante tutto – siamo contro il degrado cittadino – ma soprattutto verso il personale di servizio che, come ogni singolo cittadino romano, è costretto a piegare il capo. Abbiamo esposto il nostro disapputo in una maniera, crediamo, elegante: la mancia al ristorante va sempre lasciata in una misura almeno del 10% dell’importo totale; abbiamo lasciato un pourboir solo del 5%. Se qualcuno capisse questo, sarebbe in grado di comprendere anche il disappunto per la cena.
Il gestore – vero responsabile dei misfatti – si è ben premunito di scrivere e consegnarci una ricevuta specificando chiaramente tutte le voci (inizialmente aveva inviato un semplice scontrino) e ci ha salutato augurandoci un arrivederci a presto che non ha ottenuto alcuna risposta: era evidente che non fosse rivolto a noi.
Non vogliamo dare qui il nome del ristorante; ci basta specificare che è posto in via degli Scipioni.