La scortecata

La scortecata

La storia di Emma Dante è storia di successi, ottenuti non a seguito di straordinaria bellezza estetica, ma per bravura, cultura, intelligenza. Tuttavia in lei convive anche una straordinaria bellezza estetica, originata dall’arte e dal teatro insieme a qualche congiunzione astrale: Emma è in grado di esprimerla sulla scena, attraverso i corpi che – anche occasionalmente brutti – acquisiscono una bellezza straordinaria.

È appunto quanto accade nella Scortecata, spettacolo cui abbiamo assistito  ormai un mese fa a Spoleto 60, in cui i due personaggi femminili sono interpretati da Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, aitanti attori napoletani, vestiti di stracci e piegati in due, per simulare le due vergini ultranovantenni acciaccatissime e rugosissime: si tratta di una trovata geniale, non solo perché rievoca la tradizione del teatro settecentesco, ma perché inserisce immediatamente l’intreccio nel surreale, cioè al di fuori dell’ovvio e del ridicolo. In una scena vuota, due seggioline pieghevoli illustrano l’essenza di un “basso” napoletano (modestissima casupola piano terra); una porta per fare entra ed esci dalla catapecchia e un castello in miniatura per evocare un sogno.

La scortecata è lo trattenimiento decemo de la iornata primma, da Lo cunto de li cunti overo lo trattenimiento de peccerille, noto anche col titolo di Pentamerone (raccolta di cinquanta fiabe raccontate in cinque giornate). Narra la storia di un re che s’innamora della voce di una vecchia, la quale vive in una catapecchia insieme alla sorella più vecchia di lei. Il re, gabbato dal dito che la vecchia gli mostra dal buco della serratura, la invita a dormire con lui. Ma dopo l’amplesso, accorgendosi di essere stato ingannato, la butta giù dalla finestra. La vecchia non muore ma resta appesa a un albero. Da lì passa una fata che le fa un incantesimo; diventata una bellissima giovane, il re se la prende per moglie.

Nello spettacolo di Emma Dante, liberamente tratto da Lo cunto de li cunti, le due vecchie, sole e brutte, si sopportano a fatica ma non possono vivere l’una senza l’altra. Per far passare il tempo, nella loro miseria, inscenano la favola della scortecata con umorismo e volgarità, e quando alla fine non arriva il fatidico: “e vissero felici e contenti…” la più giovane, novantenne, chiede alla sorella di scorticarla per far uscire dalla pelle vecchia la pelle nuova.

Vi è una morale esplicita: l’ostinazione delle femmine di apparire belle le conduce a tali eccessi da produrre maschere orripilanti, ostentate con orgoglio. Ma, se merita biasimo la fanciulla troppo vanitosa che si dà a queste civetterie, è ancora più degna di biasimo una vecchia che, volendo competere con le figliole, si copre di ridicolo e rovina di stessa. Ma, una morale implicita, ben più profonda ed arcaica, emerge lentamente nello spettacolo e si impone proprio nell’ultima scena drammatica.

Raccontiamo con ordine: tre situazioni racchiudono il significato complessivo. Inizialmente le due vecchie si aggrediscono reciprocamente dimostrando una vitalità piena d’ironia e con pochi pudori, la cui verve è contraddetta dai movimenti lenti e circospetti di chi teme il crollo repentino dell’intera carcassa ossea. I due muscolosi attori, seminudi, risultano assolutamente convincenti nelle movenze circospette e traballanti (ci ritorna in mente la tecnica della “seconda posizione” appresa tanto tempo fa, nel corso di una lezione tenuta dal nostro grande amico Giovanni Moretti, attore torinese).

Nella seconda parte si realizza la favola: le due vecchie, i due attori, si trasformano nella giovane bellissima e nel principe. La trasformazione avviene sotto gli occhi di tutti con un risultato straordinario per la bravura degli interpreti e la maestria della regista, costumista, scenografa; viene recitata rivolgendo sempre la schiena al pubblico: uno infila – sopra gli stracci – una veste bianca stretta in vita ed una parrucca di capelli rossi, l’altro indossa una giacca di foggia militaresca e si cinge la testa con un fazzolettone avvolto a mo’ di turbante. L’effetto è strabiliante: non sembrano, ma “sono diventati” la bellissima ragazza dalle forme sinuose, capelli rosso fuoco, ed il principe aitante e vigoroso!

La terza scena è la più drammatica: finita la favola, tornata la realtà misera e senza speranza, la vecchia, che è stata per un po’ giovane avvenente, non tollera più la propria condizione disperata: vuole essere scorticata, a costo di ogni sofferenza e della vita stessa. Nel momento in cui, quasi in fondo alla scena, uno dei due attori allarga un coltello a serramanico alzandolo verso il cielo, la morale implicita si rivela: non è desiderabile la vita eterna, ma l’eterna giovinezza (“Muore giovane chi è caro agli dei” Menandro, frammento 125). pietrodesantis

da Giambattista Basile, testo e regia Emma Dante

con  Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola

elementi scenici e costumi Emma Dante

luci Cristian Zucaro

assistente di produzione Daniela Gusmano

assistente alla regia Manuel Capraro

produzione Festival di Spoleto 60, Teatro Biondo di Palermo

in collaborazione con Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale

coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma

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