Quei due

Quei due

Un tema di scottante attualità si propone, generalmente, attraverso due interrogativi: uno esplicito ed uno implicito. Nel caso di questo testo teatrale, la domanda esplicita si potrebbe formulare come: è giusto che due persone dello stesso sesso possano – per adozione o per gameti e/o uteri in affitto – avere figli? Il secondo implicitamente conseguente sarebbe: a quali valori morali potrebbero mai essere educati i figli di una coppia omosessuale?

Rispetto al primo quesito la risposta va necessariamente cercata su di un altro piano, cioè lo stesso piano nel quale essa si collochi nel caso di una coppia eterosessuale non fertile. Ma anche il secondo quesito va affrontato su di un altro piano: quante coppie genitoriali sono in grado di educare in modo sano i figli?

Risposte contraddittorie – che si richiamano a non precisabili leggi naturali – vengono proposte da decenni (ma si dovrebbe dire da millenni) in maniera seria, semiseria, drammatica, spesso demenziale, raramente ironica.

Il ricorso all’ironia, sull’argomento in questione, ha ricevuto il massimo del consenso in un famoso film: Il vizietto di Édouard Molinaro del 1978, adattamento cinematografico di una commedia di Jean Poiret messa in scena nel 1973 e replicata per cinque anni consecutivi al Palais-Royal di Parigi.

La commedia Quei due, versione italiana di Staircase (1966) di Charles Dyer, è un antecedente, drammatico/ironico, del medesimo argomento calato, però, in un tessuto sociale di periferie e di emarginazioni.

Nella proposta di Jean Poiret veniva affrontato, con allegria, l’imbarazzo della situazione anomala costituita dalla coppia omosessuale – con figlio adulto a carico, ed ex moglie incombente, del gay macho – in un ambiente ricco di lustrini, paillettes e redditi milionari; in quella di Charles Dyer è invece prevalente la malinconia di un sottoscala, dove una coppia omosessuale condivide il proprio disagio esistenziale tra la cura della madre invalida, di lei, e l’attesa delle visite della figlia, di lui.

Nato nel 1923, Charles Dyer ha scritto la prima commedia (1944) durante le pause dei lunghi voli tra le Isole del Pacifico, effettuati come pilota della RAF. Ha debuttato a Londra come attore-autore nel luglio del 1951 e le sue commedie sono tradotte e rappresentate da allora in tutto il mondo. Come attore ha lavorato principalmente in teatro; come autore, la sua attenzione prevalente si rivolge alle persone che soffrono di solitudine, al loro coraggio, all’umanità e alla capacità di sorridere nonostante tutto. L’opera più famosa è la “Trilogia della Solitudine”, costituita da tre commedie a due personaggi: Mother Adam, esplora il rapporto fra una madre invadente ed un figlio, che sogna impossibili vie di fuga; Rattle of a simple man, narra di un uomo giunto alla soglia dei quarant’anni ancora vergine; e Staircase – una delle prime commedie moderne che affronti il tema dell’omosessualità – si confronta con una società fortemente omofoba e puritana.

Harry e Charlie sono una coppia di barbieri omosessuali intrappolati da circa trent’anni in una barberia londinese, collocata in un sottoscala. Seppur legati disperatamente l’uno all’altro si dilaniano a vicenda con incessanti litigi. Ma l’amore, per quanto lacero e stantio, permette alla coppia di evitare la solitudine, abisso oscuro e doloroso in cui sarebbe troppo rischioso sprofondare. Entrambi i personaggi ricalcano cliché piuttosto noti: il macho gay, barbuto e peloso, e l’uomo effeminato.

Harry (Tullio Solenghi) è una civetta che manifesta un forte istinto materno inappagato ricoprendo il compagno di attenzioni soffocanti, accolte senza gratitudine seppur desiderate. Charlie (Massimo Dapporto), consumato da un esibizionismo frustrato, è schiacciato dalla vergogna dei desideri sessuali prepotenti e manifesti e dalla preoccupazione di un processo per atti osceni in luogo pubblico.

Entrambi consumano il proprio amore clandestinamente relegati, per scelta ed imbarazzo, nel luogo emblematico dell’emarginazione e del sacrificio – il sottoscala – sullo sfondo dell’Inghilterra puritana degli anni sessanta.

Lo scarto tra il bene e il male – i cui valori, sanciti da un dettato culturale borghese, si distinguono sulla base del reddito pro capite – si intromette con violenza nella vita privata, a causa dello stigma sociale e in forza di un Super Io individuale che non lascia scampo.

Ci è piaciuto di più il personaggio offerto da Massimo Dapporto; meno quello disegnato da Tullio Solenghi, a causa di una esagerazione, nei toni e negli ammiccamenti, eccessivamente televisiva.

Le scenografie di Massimo Bellando Randone rappresentano, giustamente, un unico ambiente completo di tutto e deprimente; ugualmente decadenti e depressivi sono gli opportuni costumi di scena di Moris Verdiani; le musiche di Brentmont caratterizzano correttamente l’ambientazione. La regia di Roberto Valerio, apprezzabile, ci è sembrata però abbastanza semplice.

Alla fine dello spettacolo, il testo (o forse la regia) ci ha fatto formulare la domanda se quell’emarginazione sciatta, tuttavia collocata sulla linea del galleggiamento esistenziale, fosse il risultato dell’omosessualità oppure se quell’omosessualità sciatta fosse il risultato dell’emarginazione sociale. Per nostra fortuna abbiamo conosciuto altre culture.

pietrodesantis

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