ARGOT PRODUZIONI: MISANTROPO di Molière

ARGOT PRODUZIONI: MISANTROPO di Molière

Traduzione, adattamento e regia Francesco Frangipane. Con: Arcangelo Iannace, Alceste; Francesco Zecca, Filinte; Vincenzo De Michele, Oronte; Vanessa Scalera, Celimene; Miriam Galanti, Eliante; Silvia Salvatori, Arsinoè; Matteo Quinzi, Acaste; Gilles Rocca, Clitandro;

musiche e DJ set Antonello Aprea; scenografia Francesco Ghisu; costumi Cristian Spadoni; light designer Giuseppe Filipponio

I versi recitati da Oronte e Celimene sono del Poeta Norberto Fratta Pumpuli

La storia del Misantropo (Le Misanthrope ou l’Atrabilaire amoureux, commedia in cinque atti di Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière) si può includere nell’antico adagio La lingua batte dove il dente duole. In effetti l’opera, nata nella solitudine e nella crisi per l’abbandono della moglie, rinuncia alla comicità pur ridicolizzando, fin dall’inizio, le convezioni e l’ipocrisia degli aristocratici francesi dell’epoca; si sofferma piuttosto cupamente sui difetti e le imperfezioni che tutti gli esseri umani possiedono.

La trama complessa e ricca di caratteri, come si richiede ad una commedia del seicento, si riduce in fondo ad una linea semplice, incentrata su due personaggi. Alceste e Filinte sono amici: il primo è rigoroso e petulante, il secondo disponibile e caloroso. Nei loro discorsi pseudo-filosofici il primo declama coerenza a dispetto di tutto; il secondo elogia l’armonia.

La premessa filosofica viene condotta alle estreme conseguenze dall’urgenza dei fatti, poiché Alceste è innamorato perdutamente del suo opposto femminino: Celimene, assolutamente corruttibile e corrotta, che riesce a mentire senza alcuno scrupolo a tutti i corteggiatori, per perseguire le proprie mire.

Altri uomini e donne si avvicendano intorno al protagonista: i primi allo scopo di riceverne apprezzamenti; le seconde per dichiarare il proprio amore. Alceste riesce a scontentare tutti, immolando ogni relazione sull’altare di una sbandierata sincerità.

Al culmine della baraonda emotiva, Celimene viene smascherata nelle sue manipolazioni: Alceste, comunque innamorato, le offre il matrimonio con la condizione di andare a vivere lontano da corte; ma la donna non accetta di allontanarsi dal proprio mondo. I destini si compiono, aristotelicamente, nelle due direzioni opposte entrambe sbagliate: il misantropo autocondannatosi alla solitudine; la cortigiana all’ipocrisia e alle umiliazioni. Considerando salomonicamente che la virtù sta nel mezzo, l’opera concede a Filinte la serenità di una vita garbata e dell’amore di Eliante, suo equivalente femminile. In effetti Molière, affaticato dalla vicenda personale, rende le relazioni umane come una sorta di equazione algebrica, il cui risultato deve essere costante. Ed in effetti egli intende premiare proprio la costanza dei sentimenti…

Nella rappresentazione proposta al teatro Argot “Non siamo alla corte di Francia del Seicento ma al vernissage dell’artista poliedrico Oronte. Fra risate perfide, pettegolezzi impastati di spritz e l’ennesimo ballo selezionato dal dj in sala, si susseguono le false promesse d’amore dell’affascinante Celimene all’innamorato Alceste, parole che dicono il contrario di quello che intendono, adulazioni di convenienza. E come quelle opere esposte nella scenografia, sotto la cui aura concettuale si nasconde il nulla, così sembra succedere anche ai personaggi, che svelano l’impietosa superficialità di una vita costruita sull’apparenza. Tutto con Il Pubblico situato al centro della scena, spettatore muto ma centralissimo di una scena di vita in cui può solo osservare – osservandosi – questa fauna di uomini e donne che con fare snob e borghese si studiano, analizzano e recitano tra di loro la parte più congeniale che possa sopravvivere e trionfare in società.” (Dalle note di presentazione)

Il pubblico è situato al centro della scena, bisogna dichiarare, molto scomodamente su sgabellini angusti; ma l’idea è abbastanza divertente per quanto non originale. Dopo un’iniziale sovrapposizione musicale di un ritmo da discoteca al meraviglioso Requiem di Mozart, che immaginiamo scelto per il valore simbolico, si susseguono ritmi vari, voci, sghignazzi da vernissage/discoteca in cui ben si adattano le squallide manipolazioni così efficacemente descritte da Molière, sebbene in un linguaggio aulico piuttosto fuori contesto. Il pretesto del vernissage è relativamente accettabile e serve più che altro a giustificare la lettura di una poesia (contemporanea) equivalente al sonetto di Oronte del testo originale. Ma l’operazione teatrale non ci è sembrata particolarmente brillante: scelta migliore, dovendo adattare un testo così complesso, sarebbe adeguarlo fino in fondo alla cultura attuale, anche nei nomi e negli argomenti.

Va riconosciuta alla bravura di Arcangelo Iannace (Alceste) e Vanessa Scalera (Celimene) la notevole intensità emotiva degli “ultimi 3 minuti” di spettacolo, durante i quali si concretizza l’addio, cui è seguito un silenzio compreso ed ammirato del pubblico.

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