In altre parole

In altre parole

Molte volte ho assistito a spettacoli teatrali costruiti sull’idea del ‘teatro nel teatro’; pochissime volte ho, invece, letto libri costruiti sull’idea della ‘letteratura nella letteratura’; talmente poche che ne ricordo solo una. Si tratta del libro di Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore…” iniziato a leggere prima con interesse, poi con fastidio, infine abbandonato nonostante i richiami del senso del dovere.

Jhumpa Lahiri si presenta, con questo testo di ‘letteratura nella letteratura’ scritto in lingua italiana (le altre parole del titolo) in punta di piedi, con umiltà, assicurando il lettore di pronunciarsi lì (su quelle pagine) solo per imparare. Scrive una specie di diario intimo centrato sull’amore verso la lingua italiana e sulle difficoltà – improbe – che questa presenta, ma contiene, però, anche due raccontini, due ‘creature’: Lo scambio e Penombra.

Le note biografiche essenziali dicono che l’autrice è nata a Londra da genitori indiani originari del Bengala; che ha trascorso infanzia e giovinezza a New York, che nel ’99, all’età di 32 anni, ha scritto la prima raccolta di racconti, L’interprete dei malanni, grazie alla quale ha vinto il premio Pulitzer; che il suo primo romanzo, L’omonimo, è divenuto un film di Mira Nair (The Nameshake) ottenendo un notevole successo.

In altre parole racconta come, all’inizio degli anni ’90, studentessa, scoprisse l’Italia e la lingua italiana, innamorandosene perdutamente e come dal 2012 al 2014 avesse vissuto in Italia per imparare a scrivere. In quel frangente comunque non ha oziato: ha fatto parte anche della giuria della 71a Mostra cinematografica di Venezia, ha vinto il Premio internazionale di Viareggio nel 2015 e ha pubblicato il libro di cui parlo, pensato e scritto in lingua italiana. Si tratta di una scrittrice ‘dalla penna d’oro’, un vero e proprio caso letterario.

Come d’abitudine, vado in cerca di analogie: l’interprete dei malanni contiene 9 racconti; la raccolta Amico, nemico amante della Munro contiene pure nove racconti; anche la raccolta Nove racconti di Salinger contiene, per l’appunto, nove racconti. Non intendo ricorrere alla cabala (per quanto l’idea della gestazione e del completamento…) ma immaginare che vi sia un legame di studio ed ispirazione con quegli autori delle generazioni precedenti. In effetti la scrittura in lingua inglese della Lahiri rientra appieno nell’alveo stilistico nordamericano.

Risulta però difficile decidere quale sia la lingua madre: Jhumpa Lahiri scrive da sempre in altre parole. Sarebbe interessante capire se il suono dei fonemi della lingua bengali, abbia qualcosa a che vedere con The bella lingua, come definiva John Cheever l’italiano.

Il fatto interessante del suo lungo apprendistato – più di venti anni di studio condotto anche a New York con italiane immigrate – è nel fatto di non volersi accontentare di comunicare: ella ha ‘preteso’ di apprendere i sotto-testi della nostra lingua. Per esempio cosa potrebbe significare per un’americana ‘lo struscio’ o ‘fare tappezzeria’?

Ma sono interessanti le due creature che lanciano i primi vagiti: Lo scambio racconta la kafkiana storia di una donna (una traduttrice!) che decide di scomparire dalla propria città e si reca, sconosciuta, in una città lontana in cui parlano una lingua per lei incomprensibile. Si capisce che in questo narrare – inconsciamente – Jhumpa Lahiri si pone il problema dell’identità: perché io sono io? (Sandro Gindro, Il mondo, l’essere, il panico). Il problema dell’identità della protagonista si concentra su di un maglioncino nero che ella, dopo avere provato molti vestiti in un atelier, non riconosce più. L’indomani lo accetterà, credendolo addirittura migliore del precedente, pur sapendo – in un angolo della coscienza – di averlo sempre riconosciuto.

Penombra pone un problema simile, ma al maschile: questa volta il protagonista è un uomo, che ha vissuto per alcuni mesi in un paese straniero; il suo disorientamento, al ritorno, è condensato in un sogno angoscioso in cui è in automobile con la moglie alla guida. Il risveglio, lo porta a meditare su alcuni dubbi che venti anni prima – al momento del matrimonio – avrebbe condiviso con la moglie, ma ora non più. In questo caso il problema dell’identità è posto in un’altra forma: lo smarrimento del pensiero a causa della routine.

Jhumpa Lahiri, la cui finezza psicologica si apprezza meglio nei libri scritti in altre ‘altre parole’, confessa di avere – in realtà – raccontato di sé, del proprio disorientamento per non sentirsi Bengalese, Londinese, Newyorkese. Non essendo ‘nulla’, ha perciò deciso di essere italiana – segretamente –.

PietroDeSantis

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