Gli innamorati

Gli innamorati

GLI INNAMORATI di Carlo Goldoni (produzione Teatro Franco Parenti)

Carlo Goldoni ha cambiato il teatro italiano: prima di lui la commedia si basava su di un canovaccio e sull’improvvisazione; dopo di lui fu caratterizzata da un testo scritto entrando così a far parte – anche – del patrimonio letterario. Goldoni era nato a Venezia ma, per svariati motivi, si trovò a girare per l’Italia ed emigrare in Francia, a Parigi, dove morì in povertà. La famiglia Goldoni cambiò più di una volta casa (a Venezia se ne ricordano nove), ma quella in cui nacque e trascorse l’infanzia Carlo è indicata dalle informazioni turistiche come Casa Goldoni (Palazzo Centanni), San Polo 2794.

Dopo tanti soggiorni a Venezia, lo scorso anno finalmente mi sono deciso ad entrarvi. Il luogo ha un suo fascino: innanzitutto per la sacralità legata alla permanenza dell’ospite illustre (dalla nascita, 1707, per una decina d’anni) ma anche per la bellezza della struttura gotica, trecentesca. A piano terreno, oltre al piccolo foyer con il negozio di souvenir del museo, c’è una bel cortile con un pozzo antico; una scala in pietra conduce ai piani superiori. Al primo piano, sono visitabili tre grandi stanze, arredate con mobili del tempo – anche se non quelli appartenuti alla famiglia Goldoni –: un ingresso e soggiorno entrando; una sala da pranzo sulla destra, le cui pareti sono abbellite da dipinti di Pietro Longhi, amico del Goldoni; e la sala del teatrino sulla sinistra. Oltre agli arredi, gli interni sono arricchiti da manichini: si tratta di una “casa teatro” che vuole ricreare l’atmosfera del tempo. La casa dei Goldoni disponeva realmente di un teatrino per le marionette (come molte case di benestanti) che è stato lì ricostruito; e, appoggiato alla balaustra del proscenio, un manichino dell’altezza di un bambino lascia immaginare il piccolo Carlo, affascinato dalle marionette di altezza quasi umana, e suscita una tenerezza infinita, struggente.

La grandezza artistica di Goldoni non si limita all’aspetto tecnico o all’apporto teorico: piuttosto, quelli sono conseguenza della grande qualità degli intrecci rappresentati, della bellezza e della limpida profondità dei dialoghi. L’esperienza del mondo, la comprensione delle logiche sociali fu – anche – conseguenza dei due mestieri: l’assistenza alla pratica medica del padre che egli seguì nelle peregrinazioni professionali; la pratica avvocatizia che lo coinvolse per un periodo piuttosto lungo.

Tutti i testi goldoniani sono belli – alcuni sublimi – e non giova farne l’elenco: essi godono della qualità di risultare “immortali” poiché colgono gli aspetti profondi della natura umana, i vizi e le virtù, i bisogni e i desideri. Per questo, pur rispettando rigorosamente la scrittura, essi possono essere rappresentati in versione moderna, con una recitazione ed una messa in scena che esaltano l’attualità dei temi trattati.

Così ha fatto Andrée Ruth Shammah con la commedia Gli innamorati (1759) – in tournée ormai da molti mesi – nella cui messa in scena convivono “una regia classica” e uno spirito contemporaneo: gli innamorati di ieri non sono diversi da quelli di oggi; sono uguali le gelosie, le ansie, le paure, le ambivalenze che si mostrano di fronte al sentimento. Diremmo, nella nostra terminologia, che sono uguali, ieri come oggi, gli impasti pulsionali (Freud) o la poli-direzionalità dei desideri (Gindro).

La vicenda si svolge a Milano. Eugenia (Marina Rocco) e Fulgenzio (Matteo De Blasio) sono innamorati: non possono portare a compimento la loro unione fin quando non torni in città il fratello di lui; nel frattempo Fulgenzio si deve occupare degli affari di famiglia e aiutare la cognata. In quest’attesa Eugenia scorge, però, un’incostanza e accusa l’innamorato di qualsiasi mancanza, reale o immaginaria; Fulgenzio, da parte sua è accecato dall’ira, che nasce dal proprio sentimento di impotenza: egli, infatti, non riesce mai ad controbattere alle accuse, neanche a quelle più deliranti. La sapienza teatrale di Goldoni lascia ben intendere, nel rapporto tra i due innamorati, la presenza di una “cattiva coscienza” tipica di ogni relazione amorosa (e non solo). Intorno a loro ruota un mondo che si anima e si disorienta in accordo con le inquietudini degli innamorati: lo zio Fabrizio (Marco Balbi), vanesio e bugiardo; la sorella Flaminia (Silvia Giulia Mendola), vedova apprensiva; l’avvocato Ridolfo (Alberto Manciopppi), pacato alter ego di Goldoni; la cognata Clorinda (Elena Lietti), svagata e depressa; il conte Roberto (Roberto Laureri), nuovo pretendente di Eugenia, aggressivo e generoso; i servitori Tognino (ancora Roberto Laureri), Lisetta (ancora Elena Lietti) e Succianespole (Andrea Soffiantini) straordinari componenti di un coro stralunato e strutturato sul modello della tragedia greca.

La meraviglia suscitata dallo spettacolo è la stessa che infonde in noi l’osservazione di un caleidoscopio: essa va ascritta a totale merito della regia e scaturisce dal piacere che si prova nel cogliere – insieme, in un singolo sguardo – i tanti contenuti suggeriti nel testo ed espressi dalla rappresentazione, in virtù di scelte sobrie e della ricerca incisiva e precisa di ogni singolo movimento per ogni singolo interprete. Esemplare e straordinaria, in questo senso, è la presenza scenica e l’importanza dell’ultimo dei personaggi (si fa per dire) – Succianespole – le cui flemmatiche movenze e le brevissime frasi caratterizzano pienamente l’ambiente rappresentato. Gli attori mostrano una straordinaria bravura nell’adesione al dettato registico: riescono ad essere personaggi assolutamente credibili ed attuali; ed ingranaggi obbedienti in un sistema che spinge inesorabilmente. Siamo noi, densi di uno spessore chiamato “Io”, ma evanescenti presenze, superflue in un labirinto atemporale.

La regista legge la tensione vibrante del testo (lo sguardo di Goldoni gettato nell’abisso insondabile) e la rappresenta con leggerezza: un vortice che coinvolge tutti, promuove i tormenti, scruta le fragilità, espone i sospetti. Il gioco dell’amore si intreccia con le ambizioni del potere, con le avidità e i bisogni non solo degli innamorati, il cui ritmo indiavolato non consente di smettere di litigare nemmeno per un attimo. L’incostanza del sentimento è descritta allegramente con le parole, i gesti, gli oggetti: la parola rincorre il gesto e viceversa. Dramma e allegria si incontrano (come nella vita): questa simbologia è realizzata anche grazie alla scelta di lasciare che gli attori entrino ed escano in un palcoscenico nudo – un tappeto che viene disteso all’inizio, al centro della scena – proponendo a vista ogni azione. Scene, costumi (Gian Maurizio Fercioni); luci (Gigi Saccomandi); musiche (Michele Tadini) sono perfetti: ulteriori interpreti di una costruzione ammirevole.

Lo spettacolo è da vedere assolutamente: cercatelo, se è ancora in giro, per comprendere Goldoni, la macchina teatrale e la genialità di una regia. (pietrodesantis)

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