Riflessioni in un giorno di mezz’estate

Riflessioni in un giorno di mezz’estate

Ogni libro rimanda ad altri libri come ogni pensiero rimanda ad altri pensieri; è il gioco dell’inconscio.

Leggendo Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie mi sono venuti in mente altri libri (e altre letterature): ad esempio Cristo si è fermato a Eboli, ma anche L’amore ai tempi del colera e – persino – la Divina Commedia, forse a causa di possibili allucinazioni estive.

Giorno di mezz’estate suona bene, richiama il Sogno di Shakespeare: il suo sogno forse fioriva nella notte del 21 giugno, solstizio d’estate; le mie riflessioni appartengono invece al 15 agosto, culmine del periodo estivo e punto di curvatura da cui origina la discesa ripida verso le usate occupazioni.

Sottolineo il periodo anche a causa del caldo afoso, allucinatorio; caldo da febbricitanti, che permea i fatti e i pensieri di un non senso disperato oppure esaltante.

Dicevo di Americanah, letto per stima di chi me lo ha suggerito, ma al primo impatto noioso e frivolo, quasi un romanzo “Harmony”; perciò abbandonato a favore dell’altro libro suggerito, Soldati di Salamina, bellissimo; finalmente ripreso, con la disposizione ad una maggiore pazienza.

Americanah è la storia di una ragazza nigeriana, Ifemelu, che scopre di essere nera andando a vivere negli Stati Uniti d’America. Scopre che nero, in quella società, non significa solamente inferiore, ma indica una qualità cronica dell’essere inferiore, l’esito di una malattia inguaribile: quale?

Mi invadono i ricordi: in un agosto nell’isola della Maddalena, di fronte ad un bar sulla spiaggia, un gruppo di neri americani (marinai della base Nato, che ancora esisteva) ci chiese la cortesia, concessa, di comperare birra per loro. Avevano, i quattro neri americani, l’aria dei cani bastonati che chiedono un boccone e fuggono dopo che l’hai concesso, per timore di essere bastonati ancora, ma che lasciano sorgere in noi – per nostri sensi di colpa – il sospetto che ti aggredirebbero se non glielo concedessi.

C’è poi il ricordo della campagna antirazzista – politically correct – promossa dalla Comunità Europea a vantaggio degli studenti medi, agli inizi del millennio. Si trattava di un fumetto in cui tre amici adolescenti: il primo grasso e basso, il secondo alto e brufoloso, il terzo nero si consolavano vicendevolmente a causa dei propri difetti (!)… “A Pieetroo! – mi gridò un amico – anvedi…  questi so’ più razzisti de tutti!” affermazione quanto mai puntuale, in quanto ritenere il colore della pelle un difetto esprime un concetto razzista ben preciso: l’acne si cura, il grasso si può eliminare, ma il colore della pelle? A questo punto ci sembrò inevitabile aggiungere, con il pennarello, una battuta per chiarire finalmente la mentalità razzista: “Noi nun semo razzisti; è che loro so’ neri!”

Comunque Ifemelu, ricca della propria cultura Nigeriano-greco-romana-anglofona, arriva in un paese imbarbarito da una cultura scadente (che, però, pretende di esportare nel mondo), nel quale l’individuo normale è poco più che analfabeta e  viene stimato in misura proporzionale al conto in banca ed al buon senso farisaico (vedi: sepolcri IMBIANCATI).

La ragazza deve innanzitutto rinunciare alla propria identità, radicata al suolo natio, perché è obbligata a censurare il termine NEGRO (latino NIGER, da cui Nigeria). Ora, bisogna sapere – anche se non c’è scritto in questo libro – che il termine NIGER, per i latini, esprimeva la bellezza affascinante del colore nero, il nero riflettente, il nero ebano, mentre il valore negativo era espresso, piuttosto, da ATER; e bisogna anche sapere, che la cultura romana esaltava i popoli di pelle nera perché originari del territorio più vicino al sole (e agli dei): questo, per un inconsapevole accidente, corrisponde alla verità in quanto l’essere umano, che popola la nostra meravigliosa e unica terra, è originario dell’Africa.

Come in Cristo si è fermato ad Eboli, la protagonista racconta le abitudini di una società chiusa e bigotta: riferisce di come essa sia costituita da quattro gruppi tribali, che si distinguono per le ideologie più che per le origini. Una divisione tribale è – ad esempio – quella tra progressisti e conservatori, tra i quali non è possibile lanciare un ponte né trovare una via di mezzo.

Anche le classi colte, le élites economiche e culturali, non sfuggono alla chiusura mentale: semplicemente, essa è sprofondata ed agisce nascostamente nell’inconscio. Ifemelu racconta dei suoi due fidanzati: il ricchissimo Curt – un vero WASP (white anglo saxon protestant, grazie Franco) –; ed il coltissimo Blaine – esponente della nuova intellighenzia nera – entrambi belli e pieni di qualità “epperò” (direbbe Aldo Palazzeschi) così tanto narcisisticamente legati alla propria immagine riflessa, da non accorgersene più: quando la ragazza increspa le acque immobili dello “stagno” tradendo, né l’uno né l’altro sono in grado di comprenderne il motivo. È lo stagno del politically correct (…Non pensate di dire dentro di voi: “Abbiamo per padre Abramo”; perché io vi dico che da queste pietre Dio può far sorgere figli ad Abramo… Matteo 3,9)

Anni fa assistetti ad una scena veramente curiosa: ero andato a trovare un amico, abitava su di un monte non lontano dalla capitale, e con lui eravamo seduti sopra un masso a raccontare e guardare il panorama. Vedevamo un piccolo gruppo di escursionisti, vestiti da montagna con scarponi e tutto, che salivano per il sentiero in fila, con passi cadenzati. Dietro di loro si arrampicava molto più velocemente un ragazzo in bermuda (era estate) che calzava ciabatte infradito: li superò quasi correndo mentre erano arrivati alla nostra altezza, salutò sia noi sia loro e seguitò a correre in su, come fosse in ritardo ad un appuntamento. Noi rispondemmo al saluto; i quattro montanari fecero finta di non vederlo. Io e il mio amico Pino ci guardammo e scoppiammo a ridere: i quattro montanari, narcisisticamente, non volevano riconoscersi in quel ragazzo, immagine riflessa da uno stagno che non era il loro, quindi lo ignorarono non potendo tollerare le infradito.

Comunque Ifemelu, dopo l’ultimo tradimento, decide di tornare nel proprio paese, alla ricerca dell’identità e dell’amore: a questo punto dovrebbe avere circa trentacinque anni (nel mezzo del cammin). Trova una Nigeria che, inevitabilmente, non regge il confronto economico, organizzativo, professionale; è piena di problemi e corruzione, ma non è una società tribale.

La narrazione è decisamente interessante: ella ha smesso di sentirsi nera; ma anche gli amici bianchi, per qualche alchimia, non si sentono bianchi.

L’ultima parte del romanzo risulta, a me, leggermente più stanca: ripropone le solite questioni d’amore nei soliti termini di possesso ma, per fortuna, mantenendo un granello di poesia sognante, che rimanda all’argomento di Gabriel Garcia Marquez: la capacità di attendere, seguitando ad amare.

Ho lasciato una domanda sospesa: i neri americani – Ifemelu sottolinea la differenza con i neri NON americani – sono vittime di una malattia inguaribile, quella di essere progenie di schiavi. Si tratta di una malattia di cui è causa la progenie dei “portatori sani”: gli americani bianchi. Si tratta del loro peccato originale, commesso o subìto. L’unico modo per guarirne è lasciare l’America se possibile o – almeno in modo simbolico – cercare un altro stagno in cui guardare la propria immagine riflessa. (pietrodesantis)

I commenti sono chiusi