Samson et Dalila

Samson et Dalila

Libretto di Ferdinand Lemaire, Musica di Camille Saint-Saëns

Ogni spettacolo operistico si presenta come un evento straordinario nonostante –  ed al di là di – possibili critiche, per l’enorme impiego di risorse ed il grande numero di artisti e maestranze coinvolti.

Se le opere del repertorio più tradizionale si attendono come una festa periodicamente ripetuta, della quale si pregustano in anticipo i sapori noti, quelle meno eseguite promettono scoperte stuzzicanti, talvolta dense di fascino.

Da alcuni anni il Teatro Costanzi di Roma è andato ampliando ed affinando le proposte, affiancando ai titoli di richiamo altri, meno noti al grande pubblico, che si rivelano di estremo interesse pur se attirano un numero inferiore di spettatori: è stato il caso di “Samson et Dalila” cui abbiamo assistito nella replica di giovedì 11 aprile.Il capolavoro di Saint-Saëns propone un episodio universalmente conosciuto, tratto dal libro dei Giudici dell’Antico Testamento: la passione di Sansone – liberatore del popolo d’Israele dalla servitù ai Filistei – per Dalila, prostituta ebrea oppure filistea, con la quale convive e dalla quale viene tradito per denaro.

Nel libretto di Lemaire la bellissima Dalila è una donna filistea che, usando la propria avvenenza come arma, intende vendicare la morte del re Abimelech, satrapo di Gaza, sconfiggendo e umiliando Sansone.

Per Lemaire e Saint-Saëns Dalila è un’autentica eroina animata però da una profonda cattiveria; ma il suo eroismo è palesemente commisto a desiderio sessuale acceso dall’incredibile forza – fisica e morale – di Sansone: ella riesce a scatenare in lui una passione incontenibile per indurlo a confidarle il suo straordinario segreto (ma non solo…).

Sansone resiste a tutte le adulazioni “ma non potrà resistere alle mie lacrime” canta Dalila. Così avviene; l’epilogo è noto: mentre dorme, egli subisce il taglio dei capelli e, perdute le forze e legato, gli vengono cavati gli occhi. Ormai cieco e oggetto di scherno nelle mani dei nemici, chiede e ottiene da Dio il perdono per la propria debolezza e ritrova la forza straordinaria grazie alla quale libera ancora una volta il suo popolo dalla schiavitù, causando il crollo del tempio di Dagon e la morte di tutti i Filistei, insieme alla propria fine.

Due argomenti sono trattati in modo interessante ed originale: il tema della bellezza, che si manifesta in maniera equivalente e contrapposta nell’avvenenza e nella sensualità femminili come nella forza e nella prestanza maschili; il tema dalla stupida gratuità del male.

L’attrazione reciproca tra forza e sensualità, nella nostra cultura viene proposta e moltiplicata – e sicuri esempi sono rintracciabili nell’esperienza di ciascuno –: non potendo essere sottaciuta e al fine di non risultare troppo scandalosa, la passione che si sviluppa e procede senza freni verso la ricerca del piacere viene generalmente camuffata per diluirne l’intensità o per vincolarla ad un “superiore” senso del dovere.

Nel personaggio di Dalila il desiderio sessuale verso Sansone viene asservito al sentimento della vendetta (o dell’avidità secondo l’interpretazione classica); in Sansone il soddisfacimento carnale rappresenta una specie di “straordinario premio” per le fatiche sostenute (il cosiddetto riposo del guerriero) comunque governato dalla fede in Dio.

Il “terzo incomodo” della storia è il Grande Sacerdote – personaggio inventato da Lemaire –  che, lasciando trasparire in modo piuttosto meschino la propria soggezione sensuale, chiede a Dalila il suo corpo per “tradire” Sansone, dichiarandosi disposto a pagarne i servigi.  Quarto personaggio fondamentale nel libretto – oltre ai citati Sansone (Aleksandrs Antonenko, tenore), Dalila (Ekaterina Semenchuk, mezzosoprano) e Gran Sacerdote (Elchin Azizov, baritono) – è il coro che indossa inizialmente le vesti del popolo ebreo e poi quelle del popolo filisteo.

Sottolineando quanto accennato in precedenza, sebbene l’intreccio si concentri sulla vendetta di Dalila (nei confronti di Sansone) e sul tradimento di Sansone (nei confronti di Dio) lo sviluppo dell’azione scenica e la tessitura musicale spingono inevitabilmente lo spettatore verso l’elemento della passione sensuale: che la donna non sia animata solo da freddo calcolo si evince dall’ascolto della stupenda aria “Printemps qui commence” nella quale l’interprete femminile esprime un sentimento così forte e sensuale da non poter essere giustificato con il puro raziocinio.

Le voci dei protagonisti sono belle, precise ed intonate perfettamente, anche quelle dei comprimari primo fra tutti Abimelech (il basso Mikhail Korobeinikov). Ci è rimasta solo una perplessità a riguardo proprio dell’aria più famosa che, secondo noi, la Semenchuk ha cantato “al contrario”, esprimendo una grande delicatezza nelle note basse e centrali ed una eccessiva potenza nella zona acuta tanto da sembrare “ingolata”. Lo abbiamo ritenuto un inutile e dannoso espediente tecnico/registico, usato per affermare la violenza del sentimento di vendetta; molto più efficace ed equilibrata si è invece dimostrata la cantante nell’altra, bellissima, aria “Mon coeur s’ouvre a ta voix” nella quale una sensualità – meno prorompente – era lasciata fluire liberamente.

Il tema della violenza gratuita e stupida è stato efficacemente sviluppato nell’idea registica di una tortura inflitta, legando e lasciando contorcere tra le corde otto bravissimi mimi e danzatori: la sottile angoscia provata da noi spettatori ci ha stimolato realmente l’idea della banalità inutile del male, commesso anche nello stesso istante in cui scrivo, a danno di chiunque sia debole.

Riflettendo sulle scelte registiche siamo giunti alla deduzione che l’opera sia un tipo di rappresentazione in cui sostanzialmente non succede niente: voglio dire che il tempo necessario per cantare un’aria, esprimere un singolo concetto, riempie parecchi minuti durante i quali gli interpreti stanno fermi, se non per l’articolazione della voce e per piccoli movimenti di braccia e gambe. Si tratta di tempi che debbono essere riempiti con gesti scenici compiuti da altri; nell’opera di Saint-Saëns, oltre tutto, c’è anche una specie di sinfonia nel terzo atto affidata completamente all’orchestra durante la quale si deve sviluppare necessariamente un’intera attività teatrale.

Il regista Carlus Padrissa si è sbizzarrito in tre differenti direzioni con la collaborazione di Chu Uroz (costumista) e Adriana Borriello (movimenti coreografici): sviluppare i movimenti delle masse, mimi e coro; inventare oggetti scenici modulabili; proiettare immagini elettronicamente programmate. Gli oggetti scenici erano costituiti di quattro grossi petali – larghe semi circonferenze di stoffa con anima rigida – che si aprivano e chiudevano a bocciolo e servivano a rappresentare le piante del giardino di Dalila nel secondo atto;  fornivano pretesti coreografici al corpo di ballo durante l’interpretazione delle arie da parte dei protagonisti, ed infine venivano appoggiati gli uni sugli altri per dare l’idea delle grandi colonne abbattute da Sansone.

Interessanti, anche se non rappresentano più una novità, sono gli effetti luminosi ed elettronici: dall’immagine di un leone alato proiettata sul velario chiuso che si è dissolta in tante “farfalle” durante la breve ouverture, alla pioggia delle lettere dell’alfabeto ebraico (crediamo) a varie altre trovate. I costumi erano ispirati all’ultima trovata in fatti di codici binari: le macchie quadrate (“OMR”  mi pare si definiscano) – nero su bianco – mediante le quali un opportuno apparecchio ottico legge le informazioni stampate, ad esempio, sui bollettini postali prestampati. Da quest’ultimo particolare ed anche dal fatto che la scena finale presentava il popolo dei Filistei composto da coro e corpo di ballo in abiti borghesi e occhi “ciechi” (truccati come quelli di Sansone) desumiamo nell’intenzione registica si sia voluto immaginare la violenza gratuita del forte sul debole come una sorta di cecità e l’adorazione del dio Dagon come l’attuale asservimento al principio del consumismo che tutto giustifica opponendosi alla libertà spirituale dei sentimenti e, per questo, è destinato a crollare.

La musica di Saint-Saëns, serissima ed impegnatissima, non indulge mai allo scherzo: tutta l’opera è tesa verso un traguardo drammatico, noto e presagito sin dalla prima battuta musicale, e raggiunge il culmine all’ultima battuta durante la quale avviene il crollo del tempio e la chiusura del sipario. Il Direttore d’Orchestra e Maestro Concertatore Charles Dutoit è stato coerente e rigoroso, lasciando crescere il tono del dramma fino al massimo finale con il “sottofinale” sinfonico, cui si è fatto cenno, durante il quale tutti i tempi musicali sono diventati maturi.

Se dovessimo fare un ulteriore appunto – ma non sappiamo a chi: se al direttore, al regista o al compositore – è nella drastica conclusione, che definiremmo addirittura tronca, perché non lascia il fiato allo spettatore e non gli permette di “digerire” quanto ha visto ed udito.

Pietro De Santis

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