La matematica “e” un’opinione (una piccola autoanalisi)

La matematica “e” un’opinione (una piccola autoanalisi)

Da un recentissimo periodo, due volte la settimana mi reco da una bambina con problemi scolastici generalizzati. A grandi linee posso affermare di conoscerla da sempre.

Il mio paese è una piccola realtà, quindi all’apparenza credi di conoscere tutti; poi avvicinandoti meglio, ti accorgi che… forse… E che per conoscere devi soffermarti ad ascoltare più in profondità. Così semplicisticamente posso  affermare di conoscere l’intera famiglia: la madre, che parla con grande fretta e troppa ansia, lavora presso una ditta in ambito amministrativo. Ma messa così credo di essere poco obiettiva e ancor meno critica, perché se fossi onesta, conoscendomi, per me sarebbe corretto dire che la madre fa la ragioniera e immediatamente mi assale una sorta di sdegno per il suo pensiero banale, mentre rifletto sull’intera categoria di fantozziana memoria.

Il padre si occupa di manutenzione macchinari industriali. Hanno una figlia maggiore: molto carina, molto educata, molto timida, molto insicura. La figlia del “molto”: durante il passaggio dalla prima alla seconda media, abbiamo rivisitato insieme il programma di matematica dell’anno precedente.

Fortunatamente in prima media, per quanto riguarda l’aritmetica, il programma non è vasto e ripercorre molto degli ultimi due anni delle elementari: dal consolidamento delle  espressioni, alle potenze, gli esponenti, le frazioni.

Sembra, questo, l’unico anno di scuola “dell’obbligo” che abbia una programmazione sensata.

La famiglia abita in una zona leggermente isolata, nascosta da una collina. Prima di girare la curva, non puoi osare di immaginare che troverai la campagna nel più verde splendore.

Come gran parte di ciò che è profondamente bello, questo luogo rimane seminascosto e, soprattutto, anche in questo caso, ci si deve soffermare, senza fretta, a guardare per assaporare la meraviglia.

Quando arrivo nei pressi della casa, guido alla fine del viale non asfaltato con la scusa di girare l’auto, per trovarla poi in direzione quando uscirò. In verità voglio parcheggiare accanto ad una struttura ricoperta di edera: mi ricorda un salice piangente, poco distante da lì, dove ho trascorso antecedenti momenti della mia vita.

E’ un albero che adoro. E’ la pianta più elegante che esista, anche se non è alta come il pino, se non è forte come una quercia, e se non vanta un legno duro e pregiato come il noce. Le foglie crescono ad una velocità impressionante. La sua potatura se non sbaglio, avviene con i primi caldi primaverili; poi arriva l’estate e il Salice ha di nuovo la sua chioma lunga. Salix Babylonica, il suo nome originario, dovrebbe provenire dalle regioni dell’Iran (“Arpa d’or che dal salice pendi…”, cantano gli ebrei, schiavi in Babilonia), dove il clima si confà maggiormente  alla sua specie.

Esiste anche una storia del salice piangente. Una volta era un “salice ridente” racconta la favoletta; ed ho già chiuso senza leggere oltre, perché sin dalle prime righe mi accorgo che, se devono trovargli un ex pregio, evidentemente lo ritengono ora un albero difettoso.

La “mia” bambina frequenta la quarta elementare ed ha la fortuna di essere inserita in un contesto di soli sedici bambini (in queste classi super affollate!). Non conosco la sua maestra, ma l’ho sentita più volte nominare. Principalmente ho ascoltato lamentele dei genitori: se queste siano fondate o meno lo capirò in seguito, attraverso gli appunti della bambina soprattutto.

Per ora posso confermare che a lei, la sua maestra con cui trascorre gran parte delle ore, trovandosi la scuola elementare italiana nella volontà di creare figure polivalenti (poi vedranno quali altre invenzioni spadellare nei prossimi anni), non piace.

“È bella la maestra?” Non risponde no; scuote la testa sorridendo vergognosa.

“Me la descrivi, per cortesia?” Trovo che, per me così aggressiva, essere gentile con un bambino sia la prima regola da rispettare. Generalmente vengono trattati come piccoli robot che devono obbedire a telecomandi disordinati.

“E’ bionda, alta…che ne so…ha gli occhi a mandorla…” proseguo.

“Che vuol dire a mandorla?”

Ho tirato la pelle alle estremità degli occhi e si è messa a ridere.

“Ha i capelli ricci…un po’ lunghi, ora però li ha tagliati”, risponde timidamente, aspettandosi chissà quale punizione per non amarla a sufficienza, mentre io, gelosa, sono contenta.

Mi è uscito da sorridere per quel – un po’- pensando che a mia volta, forse, non ho i capelli corti ma “un po’ corti”.

La mia piccola allieva mi trova bella, quindi a modo suo mi apprezza, ed ha voglia di esser aiutata da me. Quando sono entrata in casa sua per la prima volta, mi attendeva seduta con i libri e i quaderni sul tavolo; se, oltre all’imposizione dei genitori, ci fosse anche la voglia di studiare della bambina, non so dire.

Arrivata come un turbine, credo di averla confusa con mille parole: sfoglio quaderni, apro i libri, leggo il diario. Intanto le chiedo qualcosa.

” Tu sei quella bambina che non mi vuole a fare i compiti con lei?…Potrei offendermi”

“Va beh, ne riparliamo dopo magari. Ora se ti va’, vediamo ‘sta benedetta frazione, sperando di ricordarmela”.

Siamo rimaste insieme due ore. Ogni tanto, finito un esercizio o un appunto, ci fermavamo, le chiedevo qualcosa, ritornavo su un argomento precedente. Lei è in attesa che la burocrazia arrivi al suo nome, per esser chiamata ai test di apprendimento scolastico.

In due ore, al primo incontro, con lei ho svolto un ripasso dell’unità frazionaria, il concetto di decimale, la classificazione dei triangoli per lati e per angoli, nonché qualche pagina di geografia (volevo sentirla leggere, ma soprattutto ripetere).

In due ore quattro argomenti, tra l’altro tutti compresi. Un sacco di cose….- mi dicevo- troppe…

Ma Elisa mi seguiva.

Il problema, e mi assumo le responsabilità di quel che dico, è che in Italia  la scuola ha sempre fretta. Un sacco di fretta. Corre proprio tanto, per andare non si sa dove. È una scuola confusa, affannata e rattoppata. Una scuola che si agghinda con qualche lavagna interattiva, ma manca di gessi e palestre. Equivale all’indossar la giacca senza possedere una camicia, mi dico sempre. Sarà che sono alla perenne ricerca delle fondamenta? E devo trovarle ovunque….

Ci pensavo, per inciso, mentre le chiedevo di calcolarmi il perimetro di un triangolo isoscele, con base x e un lato y.

“La verità, pensavo, è che tu non sai cosa significhi perimetro”. Se avrò tempo le farò cercare il suo di perimetro, quello del suo corpo, o di una parte di esso.

Ma la verità è anche, e lo dico con comprovata esperienza su di me, che tendiamo a proiettare sempre le nostre aspirazioni su questi bambini e ragazzi; mentre la “nostra” fretta è proporzionata alla “nostra” paura di non essere all’altezza del compito educativo.

Sempre più spesso – ultimamente sto espandendo interiormente questo concetto – mi seggo accanto ad un bambino e parlo come se non sapessi nulla dell’argomento che abbiamo di fronte.

“Spiegare una nozione che si conosce, a chi non la conosce, impone il dimenticare di conoscerla. E se sei dominato da irrefrenabili istinti di presuntuosa onniscienza, la cosa ti riuscirà male”.

Credo che l’unico momento in cui i miei deliri di onnipotenza cedano, è quando lavoro. Se mi trovo di fronte problemi matematici che sembrano irrisolvibili, e che un adolescente delle medie non riesce a svolgere soprattutto in virtù di lacune che provengono dalla scuola elementare, io spiego loro la matematica attraverso un commento in buon italiano, come fosse un tema.

Un problema è un tema. La matematica va parlata.

“La matematica è radicata nella filosofia; sono l’una parte integrante dell’altra, indistinguibili e non divisibili” dico sempre loro. E quando riusciamo a risolvere un problema, chiedo di spiegarlo a me. Se, in qualche modo, riescono a raccontarlo verbalmente, è il segno che hanno compreso.

Alla fine del nostro primo giorno insieme, ho chiesto alla “mia” bambina il permesso di tornare. Ha riposto sì: era un vero sì.

Le ha una brutta grafia (cacografia= brutta grafia; calligrafia= bella grafia). Questo non significa per forza che sia disgrafica. A me dà l’idea di una protesta, mista a pochissima voglia di impegarsi nella scrittura. Ma la noia e la scarsa motivazione come subentrano? E se fosse una sorta di ansia male incanalata? Secondo me la noia è radicata in una carenza di qualcosa che dovrebbe venire dall’esterno. Anche in questo caso riconosco la mia scarsa obiettività: se cito il termine “demotivazione” mi viene in mente me stessa.

Diciamo anche che la “mia” bambina è molto timida (dovrò fare caso a quante volte la madre intervenga e parli al suo posto); abbiamo dialogato della scuola e mi ha riferito che quando è chiamata alla lavagna non riesce a parlare, e quando torna al posto qualche compagno, soprattutto uno, la prende in giro.

La mia proposta, sulla quale dovrò tornare, è stata:

“Abbiamo due possibilità. La prima, quella facile, ma proprio semplicissima, è quella di mollare a quel compagno un cazzotto centrato. Però glielo devi dare forte e beccare proprio la punta dello stomaco, ma devi metterci proprio un sacco di impegno in questo cazzotto. Mira allo stomaco. respira, prepara il pugno e colpisci!!”

Fortuna che ho una grande mimica, che lascia bene intendere quando sto scherzando evidentemente.

Lei ride; ha compreso che non si tratta della soluzione ideale.

“La seconda possibilità, è  quella di parlare; metti caso che, per caso……, le tue risposte siano,  per caso… corrette, e la maestra magari è soddisfatta, metti caso che, magari per caso… se parli dici la cosa giusta, quando torni al banco il tuo compagno che potrà dire?”

Ci lasciamo con la domanda… farcita volutamente di “magari” e di “per caso”.

La madre apre la porta e io devo scappare via, perché dopo di lei ci sono altri cinque piccoli “clienti” ed un agenda che a fatica riesco a gestire…

Ma…. per caso… non sarà che io stia comprendendo davvero? Qualcosina… Però mi sento quasi demotivata questo periodo…  Il problema è che mi sento divisa in due: una parte di me vorrebbe scappare e auspica che il lavoro vada a monte (mica è vero…); un’altra parte è quasi felice, ma ha paura. Le due parti si mescolano e danno vita ad una quantità di sfumature.

Mi accorgo di pensare troppo durante il tragitto e di proiettarmi già nel luogo del lavoro.

“Non fasciarti la testa prima di averla rotta” mi dici tu. Semmai… lungo il tragitto… vedo…

Come ieri, mi son sentita sola, o avevo bisogno di compagnia, di qualcuno a cui raccontare anche di me… ed ho chiesto alla mia amica di venirmi incontro. Ho messo in dubbio le mie capacità e ho iniziato a tremare e, d’istinto, cercavo il primo posto adatto dove sedermi. I risvolti delle fantasie onnipotenti sono i sentimenti d’impotenza…

Ma so che questi discorsi annoiano. Un’intuizione interessante posso dirla; finalmente ho compreso cosa essenzialmente facciamo studiando e lavorando insieme.

Liberiamo i pensieri.

Con affetto

ps: ho rivisto la “mia” bambina oggi. Perché la sua scrittura è già diversa? …è tutta la settimana che provo ad inviarti questa lettera; vediamo se ci riesco..

Anastasia

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