The Help

The Help

di  Kathrin Stockett

The Help (L’aiuto) è il primo romanzo di Kathrin Stockett, frutto di cinque anni di lavoro, pubblicato nel 2009 in 35 paesi (in Italia da Arnoldo Mondadori), dopo essere stato rifiutato da numerosi agenti letterari. In Italia il romanzo è stato ripubblicato nel 2012 dallo stesso editore, con il titolo originale The Help, dopo la distribuzione dell’adattamento cinematografico, diventando ben presto un best seller.

È incentrato sulla figura di alcune domestiche afro-americane impiegate presso famiglie bianche a Jackson, Mississippi, all’inizio degli anni sessanta ed è basato sui racconti paralleli di tre narratrici: Aibileen Clark, donna di mezza età che ha trascorso la vita educando i figli dei bianchi; Minny Jackson, fantastica cuoca dal carattere spigoloso, ripetutamente licenziata a dispetto del  bisogno di denaro per la numerosa famiglia; ed infine Eugenia “Skeeter” Phelan, una giovane bianca neo-laureata e inquieta, con aspirazioni da scrittrice.Nell’estate del 1962, terminati gli studi Eugenia “Skeeter” torna nella città natale, Jackson. Aspira a diventare scrittrice e cerca di coltivare una libertà di pensiero, in contrasto con le aspirazioni delle coetanee attratte dal matrimonio e dal ménage famigliare. Sebbene la madre non apprezzi quelle idee anticonformiste, Skeeter conta sull’appoggio dell’amata Constantine, la governante nera che l’ha cresciuta, ma che, però, sembra scomparsa nel nulla.

Aibileen Clark ha allevato uno dopo l’altro diciassette bambini nei quali ha cercato di infondere una moralità migliore di quella dei genitori, di impronta cristiana. Minny, la migliore amica di Aibileen, è una donna grassa e massiccia, madre di cinque figli e sottomessa ad un marito manesco: carattere forte e lingua tagliente, avrà la fortuna di diventare infine l’aiuto di una donna strepitosamente bella, di origini umilissime, moglie di un giovane imprenditore ricco ed illuminato. I destini delle tre donne si intrecciano inevitabilmente, portandole a lavorare segretamente a un progetto che vuole scuotere la società razzista di Jackson: raccontare la vita quotidiana dei “bianchi” attraverso gli occhi delle domestiche.

Altri personaggi sono fondamentali nella storia: il padre e la madre di Skeeter, coraggiosi e mal compresi dalla figlia; la sua migliore amica, prepotente ed arrivista, presidente della locale associazione di beneficienza per la cura dei bambini africani; e il suo temporaneo fidanzato, unico ragazzo interessato a lei ma troppo tradizionalista per resistere.

Tra il 1962 ed il 1963 svariati fatti accadevano negli Stati Uniti e nel microcosmo di Jackson, tali da rendere fosca un’atmosfera fino ad allora abbastanza serena, nella rigida divisione in quartieri: la città dei ricchi con ville, giardini e club esclusivi; e i sobborghi poverissimi dei neri, necessariamente invisibili ai bianchi. Trattavasi, però, di una serenità regolata dalla paura, di oltrepassare i limiti consentiti. Due tra le molte  “colonne d’Ercole” entrano a far parte della storia: l’obbligo dei servizi igienici per neri, raccomandata allo scopo di preservare dal “contagio” ed il divieto d’ingresso nei locali senza una precisa autorizzazione e una specifica divisa: il camice bianco.

Le donne descritte emergono con un certo spessore, nel bene o nel male, sufficiente a dare loro credibilità; le figure maschili risultano monocromatiche e generalmente svalutate. La scrittura è piacevole e le vicende si susseguono con un certo ritmo interessante. Altro discorso va fatto, invece, sulla concezione del razzismo che inconsciamente l’autrice lascia passare: come in molte costruzioni un po’ nazionalistiche (gli Stati Uniti non rappresentano la migliore democrazia possibile?), nella letteratura o nella cinematografia americane finisce tutto in “gloria”: i buoni trionfano e i cattivi, che non sono nemmeno poi tanto cattivi, vengono bonariamente puniti.

Quella che, invece, viene proposta è l’eterna divisione tra ricchi e poveri, che rappresenta solo una parte del razzismo: infatti si può anche essere razzisti, ma non tollerare l’insulto dell’indigenza. L’idea che i poveri siano sporchi, intellettualmente inferiori, moralmente ignobili e trasmettano malattie (il che giustificherebbe la separazione dei servizi igienici) non è propriamente di stampo razzista, ma è una lunghissima e consolidata tradizione culturale che fornisce e giustifica anche l’etimologia della parola “cretino”. In effetti “povero cretino” (pauvre chrétien) è la volgarizzazione del francesismo equivalente a povero cristiano: nel medioevo, la disastrosa crisi economica secondaria alla caduta dell’impero romano, fece precipitare una larga parte della popolazione europea in condizioni di povertà estrema, tali da non poter godere di un’alimentazione sufficiente o sana. Così i poveri (cristiani) diventavano anche malati ed instupidivano a causa del cibo, della mancanza di abitazioni adeguate e delle epidemie: la situazione rimase praticamente intatta per millecinquecento anni, fino alla fine del ‘800, quando si ebbe un risveglio morale sotto le spinte filosofiche laiche (marxismo) e religiose (enciclica Rerum Novarum di Leone XIII). Per tutti questi secoli (per non dire da sempre) i poveri subivano il disprezzo, la violenza gratuita e la segregazione in luoghi separati da parte del ceto sociale ricco o borghese. Come si diceva, il razzismo vero e proprio affonda anche in questo stile di vita, ma il suo aspetto peculiare è altrove: nel divieto di partecipare alla vita e al ceto sociale del “colore” che è al potere. Un discorso più etico e consapevole sul razzismo è stato portato sugli schermi, ad esempio, nel bellissimo film “Indovina chi viene a cena”(1967) –.

Il libro della Stockett sembra puntare l’indice soprattutto contro una morale tradizionalista in cui bene e male si mescolano e i buoni sentimenti soccombono per il timore dell’emarginazione.

pietro de santis

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