Le sorelle misericordia di Eugenio Sideri

Le sorelle misericordia di Eugenio Sideri

Abituati ad assistere all’intera stagione teatrale di Morrovalle (o quasi), quest’anno non siamo riusciti a vedere nulla ad esclusione di “Fabrizio De André: da Marinella a Princesa” – a cura degli organizzatori di Musicultura, manifestazione canora che si svolge tra Recanati e Macerata – avvenimento di cui non abbiamo parlato perché non ci è sembrato uno spettacolo ma, piuttosto, una specie di documentario con parole, immagini e canzoni (molte parole, per altro, marginali).

Quindi, per noi, questo è stato lo spettacolo di apertura della stagione e, temiamo, anche di chiusura. Il testo presentato ci era sconosciuto ed altrettanto il suo autore, questo Eugenio Sideri di cui ci siamo andati a documentare. Ci sembra, egli, far parte di quella schiera di giovani autori (ormai quarantenni) sostanzialmente interessati a due argomenti: le questioni sociali e la morte; e che, per tali motivi, non esitiamo a definire sadomasochisti. Prendendo a spunto un colloquio avuto con il maestro Sandro Gindro, ormai tanto tempo fa, segnaliamo come si possa riconoscere il sadomasochismo di tali autori dalla comune caratteristica di non riuscire a scrivere nulla in cui non si parli di morte o sofferenza, pur se il fine sia quello di realizzare una commedia di puro “divertissement”, convinti che il semplice ricorso a quegli argomenti nobiliti un testo teatrale.

Questo testo, leggermente surreale, propone la vicenda di un’eredità: tre sorelle, che non si frequentano (né comunicano) da svariati anni, si incontrano al funerale del padre, chiamate dal notaio che spiega loro il meccanismo di acquisizione dei beni famigliari. Si tratta di realizzare almeno un contratto con l’azienda di famiglia.

La questione dovrebbe risultare divertente in quanto l’azienda di famiglia è un’agenzia di pompe funebri. L’autore che, fortunato lui, non sembra possedere informazioni dettagliate su questo tipo di attività, sfrutta due equivoci: l’imbarazzo che “dovrebbe” suscitare la parola “morte”, annessi e connessi; e quello un po’ più forzato legato alla parola “pompa”.

Nella lingua italiana quest’ultimo termine non fa ridere per niente: i due significati ad esso associati indicano infatti “splendore” e “grandiosità” oppure fanno riferimento ad un congegno meccanico che serve al sollevamento dei liquidi. Nel linguaggio gergale esiste un terzo significato – figurato –  sul quale l’autore gioca gran parte degli equivoci, che rinvia all’idea di un rapporto sessuale orale nel quale – per la precisione – con la bocca si esercita una stimolazione dell’organo di riproduzione maschile.

L’equivoco viene ostinatamente riproposto da Sideri che inventa, come esercizio manageriale di una delle sorelle Misericordia, l’attività delle pompe (di benzina) moltiplicandone le equivoche conversazioni telefoniche, di lavoro, ricche di terminologie inerenti al “pompare”, “succhiare” all’efficienza delle spagnole, più professionali, e alla poca affidabilità delle brasiliane, famose solo di nome e così via ad libitum…

Terzo argomento, capace di dare vita ad equivoci e divertissement, è la reazione psicosomatica delle tre sorelle al contatto con la morte: la più grande Eulalia (Graziella Del Monte) mangia aglio ed ha un alito fetido; la seconda Francesca (Federica Sacchini) è vittima di svenimenti al cui risveglio segue un comportamento isterico in cui si esprime in dialetto marchigiano; la terza Valentina (Marina Stortini) si fa venire (realmente) accessi di febbre.

Argomento fondamentale ed esplicito del testo è la teorizzazione dell’uomo oggetto: il cadavere, argomento centrale di conversazione tra le tre sorelle e la cliente Elide Bortolazzi (Rosita Platinetti) viene trattato come oggetto sia da morto, conservato nudo in un frigorifero-catafalco da trasporto, sia da vivo, ricordato per le dimensioni del suo “uccello” o, per meglio suggerire, “pesce”.

Proprio sul pesce si gioca l’ultimo degli equivoci perché la cliente, che commissiona il funerale per il marito, è perdutamente innamorata del pesce di casa: oggettivamente, si parla del pesciolino rosso che ella trasporta con sé in un’ampolla di vetro; simbolicamente, si fa riferimento al “pesce” del marito. Tanto evidentemente i due “animali” sono collegati che, messo l’uno nel catafalco-frigorifero, l’altro finisce nell’acqua bollente: alla fine i funerali saranno due.

Il sottofinale (scena simile a quella di apertura), propone le quattro donne mentre porgono i saluti di rito ai convenuti alla cerimonia funebre , nella quale la cliente esibisce la piccola bara per il pesce bollito, che tiene tra le braccia, mentre la grande bara, che contiene il “pesce” surgelato, rimane alle spalle.

Il finale autentico, shakespearianamente, pirandellianamente, ioneschiamente e chi-più-ne-ha-più-ne-metta-mente, propone un monologo improvvisamente drammatico affidato alla sorella maggiore: la confessione di un tentativo di suicidio indotto dall’abbandono del marito e la scelta successiva di mettere tutto in burla e “in aglio”. Sofferenza e morte non si possono eliminare ma esorcizzare: eliminarne il pensiero nella testa – sopportando, però, l’odore di cadavere in bocca – è un ennesimo riferimento dell’autore, questa volta del tutto inconsapevole, a pratiche di sessualità orale.

Del testo, come crediamo risulti evidente, non ci piace la volgarità: ci disturba un po’ l’ampio ricorso al turpiloquio, ma ci innervosisce del tutto il qualunquismo delle argomentazioni, ostinatamente perseguito allo scopo di “far ridere” a costo di presentare situazioni sgangheratamente irreali. Non si può, però, non riconoscere una certa efficacia nelle concatenazioni delle scene, nel ritmo e nella definizione dei personaggi: suggestionata dalle proprie illusioni Eulalia; concreta e materialista Francesca; aggressiva e arrembante Valentina; persa nell’iperuranio del piacere Elide. Divertenti ed azzeccati sono gli espedienti del ricorso al dialetto – in incisi che provocano un’accelerazione comica irresistibile –; al ballo del “tip tap”; ai riferimenti shakespeariani e al rito liberatorio del canto, Eulalia Torricelli “da” (e non “di”) Forlì, di Olivieri-Nisa-Redi.

Abbiamo trovato molto brave le quattro interpreti: ironiche, divertenti e divertite, capaci di muoversi con sufficiente disinvoltura, cantare e accennare a qualche passo di danza.

Ci è sembrato buono il lavoro del giovane regista Stefano Leva, che ha saputo trovare un buon ritmo, adattandolo alle sue interpreti, ed ha avuto l’accattivante idea di trasformare il dialetto romagnolo, dell’autore ravennate, in uno strettissimo marchigiano-Morrovallese.

Prezioso è stato il contributo dell’assistente di scena (Liliana Ciccarelli), degli assistenti tecnici (Noam Prosperi e Stefano Romagnoli), del tecnico delle luci e del suono (Federico Mancini) e della “nuova” truccatrice (Valeria Lambertucci), la cui mano ha saputo aggiungere un tocco di teatralità ai personaggi.

Niente da criticare? Ci piacerebbe che queste ragazze (ed anche i ragazzi in altre occasioni) fossero un pochino meno preoccupate della pronuncia nel momento di recitare: facciano tanti esercizi di dizione nel corso di tutto l’anno, ma leggano il testo ed imparino le battute senza preoccuparsene più.

pietro de santis

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