L’avaro di Molière

L’avaro di Molière

La figura di Arpagone, protagonista del testo di Jean-Baptiste Poquelin/Molière, è entrata a far parte della nostra mitologia (quasi) come Edipo o Odisseo; d’altronde l’avarizia, dei sette peccati capitali, è forse il più strisciante, tanto comune da passare inosservato. Solamente le manifestazioni più forti di quel sentimento, accompagnate da atteggiamenti ossessivi e persecutori, vengono rilevate nella loro anomalia, mentre i gesti di (più o meno) piccola avarizia quotidiana, sembrano del tutto nella norma: un saluto non concesso; l’indifferenza di fronte ad un desiderio altrui; le omissioni di aiuto mimetizzano la loro vera natura nel ricorso a giustificazioni razionali del tipo: “quella persona mi ha dimostrato antipatia”; “se concedessi attenzione mi toglierebbero spazio”; “le persone debbono cavarsela da sole”; che manifestano oltre all’avarizia anche aggressività, angoscia di castrazione, invidia.D’altronde la forza del mito si manifesta nell’universalità dei comportamenti: dimostra avarizia chi non vuole esprimersi perché “tanto è inutile” (geloso dei propri pensieri); chi rischia una crisi d’ansia solo all’idea di compiere un gesto d’affetto (che potrebbe far sentire l’altro più sicuro); chi si impone rabbia ed indifferenza per rifiutare tout court i desideri altrui (e non rispondere alle richieste). D’altronde l’avarizia si esprime sempre attraverso ostinazioni e rifiuti, nel terrore che anche un singolo segno affermativo possa aprire le chiuse del donare, esponendo al rischio di rimanere svuotati come una vescica rinsecchita.

Perciò, chi è avaro non prende nemmeno in considerazione la possibilità di dare almeno solo una parte di quanto gli venga chiesto, elaborando pensieri paranoici la cui responsabilità attribuisce ad altri, più o meno prossimi nello spazio o nel tempo. Chi è avaro teme di dover donare troppo, tutto: avarizia e prodigalità sono le due facce della stessa medaglia (cfr. Sandro Gindro, Un amico non avaro, Psicoanalisi Contro n. 30, marzo 1987).

Il mito di Arpagone descrive un’avarizia distillata, quasi astratta: nella cassetta di monete egli tiene racchiusa la propria anima e rischia di impazzire al pensiero di perdere qualcosa. Perciò, per non essere costretto a spendere, decide di sposare il figlio Cleante ad una ricca vedova e propone alla figlia Elisa un marchese disposto a rinunciare alla dote. Nella trama tuttavia sembra esserci un difetto poiché l’avaro sceglie per sé Marianna, giovinetta dotata di molte virtù, ma povera e senza dote: in realtà Arpagone non ambisce a possedere più di quanto già non abbia – desiderare di più significa anche rischiare –; egli semplicemente non vuole perdere i “propri” scudi, racchiusi all’interno della cassetta, e preferisce immaginare l’intimità di persona povera, che non ha potere sul denaro e, per di più, in debito di riconoscenza, si possa adattare ad obbedire. Molière riesce a sottolineare, con grande finezza psicologica, una caratteristica interessante dell’avarizia: le persone avare tendono a rinchiudersi in una vita senza slanci, ossessionati e terrorizzati dall’idea di perdere qualcosa. Si tratta di una sorta di cartina di tornasole: le persone chiuse in una vita monotona e senza slanci sono realmente avare.

I figli di Arpagone nutrono altri desideri: Elisa è innamorata di Valerio – giovane di origini nobili ma senza capitali, che per stare accanto alla ragazza si è messo al servizio dell’avaro – e Cleante si è promesso alla stessa giovane che il padre vorrebbe sposare. Mentre l’avaro discute con i figli Freccia, domestico zoppo, approfitta della distrazione e gli sottrae la cassetta colma di scudi d’oro.

Scoperto il furto Arpagone, distrutto, quasi impazzisce: dubita di tutti e crede di riconoscere il ladro persino nella propria ombra. Nel folle parapiglia che segue il cuoco, roso dall’invidia di Valerio, suo antagonista sempre preferito dal padrone, decide di incolparlo del furto. In un dialogo magistralmente scritto, pieno di ironia e denso di equivoci, Valerio dichiara ad Arpagone di averlo ingannato – facendo riferimento all’amore nei confronti di Elisa – mentre l’avaro crede stia confessando il furto della cassetta. Alla presenza di tutti i protagonisti, inclusi il marchese Anselmo e la giovane Marianna, Valerio svela le proprie origini sostenendo di essere figlio di Don Tommaso d’Alburci. A questo punto Marianna riconosce in lui il fratello e racconta la propria versione della storia; in un ultimo colpo di scena anche Don Anselmo, preso dai rimorsi per una vita condotta in maniera non proprio trasparente, svela di essere Don Tommaso D’Alburci: promette sostegno ai due figli e favorisce le nozze tra Elisa e Valerio.

Il lieto fine è ormai quasi completo: Cleante sa dove è nascosta la cassetta con gli scudi d’oro ed è disposto a restituirla al padre in cambio del consenso al matrimonio con Marianna. Per Arpagone non esistono dubbi: il suo amore è per la cassetta.

Figura di spicco della nuova scena teatrale italiana, Arturo Cirillo ha voluto sovraccaricare il testo del drammaturgo francese, restituendo un Arpagone arcigno, avido e chiuso in una tragica maschera all’interno di una pièce più violenta del necessario, nella quale i sontuosi costumi di Gianluca Falaschi, dipinti da Silvia Fantini, prospettano un ‘600 pesantemente post moderno. La scena psicologicamente evocativa di Dario Gessati utilizza l’inganno prospettico della camera di Ames: ciò che sembra vicino è invece lontano e viceversa. La scenografia, attraverso tre grandi cornici mobili, intrappola gli interpreti in un labirinto tortuoso che rende angosciosa l’atmosfera in cui si muovono: tutti  sono nello stesso tempo vittime e carnefici di un avaro, paranoico ed egoista, intento a spiare le mosse altrui per prevenire le trame ordite da figli e servitù. In realtà scene e costumi sembrano ispirarsi più alla saga di “Guerre stellari” che ad una commedia del seicento ed anche la lettura registica, dai toni sempre esasperati, caratterizza in maniera marcata i personaggi, ne lima lo spessore e li rende monodimensionali.

Si capiscono le “buone” intenzioni di Cirillo di descrivere un mondo in cui bontà e cattiveria non siano del tutto distinguibili ma il testo – pieno di ironia – ne risulta mortificato: gli equivoci diventavano nonsense o macchiette da avanspettacolo e persino il bellissimo monologo di Arpagone, recitato con confusa cattiveria, perde l’intensità emotiva che lo avvicina ad una dichiarazione d’amore: «Al ladro! Al ladro! All’omicida! Giustizia, giusto cielo. Sono rovinato, assassinato, mi hanno pugnalato alla gola, mi hanno rubato i miei soldi. Chi sarà stato? Dov’è andato? Dov’è? Dove si nasconde? Come lo ritroverò? Da che parte devo correre e dove non devo andare? È mica là? O qui? Chi è la! Alto là! Rendimi il mio denaro furfante…» (Molière, L’avaro, atto IV, scena VII).

Personaggi de interpreti: Arturo Cirillo (Arpagone); Michelangelo Dalisi (Cleante); Monica Piseddu (Elisa); Luciano Saltarelli (Valerio); Antonella Romano (Mariana); Salvatore Caruso (Anselmo, Saetta, Fildavena); Sabrina Scuccimarra (Frosina); Vincenzo Nemolato (Mastro Simone, Baccalà, Commissario); Rosario Giglio (Mastro Giacomo). Scene: Dario Gessati; costumi: Gianluca Falaschi; disegno luci: Badar Farok; musiche: Francesco De Melis; regista assistente: Roberto Capasso; assistente costumista: Gian Maria Sposito; costumi dipinti da Silvia Fantini. Regia di Arturo Cirillo.

(pietro de santis)

I commenti sono chiusi