Sette opere di misericordia

Sette opere di misericordia

Soggetto, sceneggiatura e regia di Gianluca e Massimiliano De Serio

Il film, interpretato da Roberto Herlitzka, ha collezionato un certo numero di premi internazionali nei festival dedicati al cinema d’essais, che mettono in palio orsi, giaguari e altri animali celebrativi. Il titolo è una parafrasi delle sette opere di misericordia corporale, qui rappresentate nel loro esatto opposto. In una periferia di Torino senza calore né misericordia una ragazza moldava, Luminita (Olimpia Melinte), vive di espedienti: dorme in un furgone tra contenitori di benzina e secchi di vernice; ruba borsette nelle sale di attesa degli ospedali; cura la propria igiene nei bagni pubblici. Soprattutto non parla se non per monosillabi o brevissime espressioni d’intesa con persone a lei note – lo sfruttatore moldavo, cui deve cedere i proventi dei furti; il portantino dell’obitorio (Stefano Cassetti) con cui organizza un traffico illecito; Andrea, un ragazzino moldavo (Cosmin Corniciuc) innamorato di lei – e, costantemente, con una mimica facciale pietrificata ed inespressiva.

In ospedale intercetta Antonio (Roberto Herlitzka), paziente tracheitomizzato con gravi difficoltà respiratorie, presumibilmente pensionato, anch’egli impegnato in qualche traffico losco (di ruote d’automobile). La ragazza gli si mette alle calcagna e si introduce nel suo appartamento con violenza. Avviene un primo coup de théâtre: Luniminta rapisce il figlio neonato del suo sfruttatore per cederlo ad una coppia italiana, per il tramite del portantino, al fine ottenere in compenso una nuova identità – rubata ad una ragazza romena, deceduta e non reclamata all’obitorio – permesso di soggiorno incluso. Abituata alla violenza, Luminita usa violenza al vecchio, chiudendolo in uno sgabuzzino e abbandonandogli tra le braccia il neonato, senza darsi pensiero né del cibo né dell’igiene.

Ma gli avvenimenti precipitano: la vendita del bimbo ritarda; un complice nel traffico d’auto sottrae ad Antonio l’infante per riceverne un riscatto.

Luminita, perso il suo tesoro, crolla: senza proferire parola libera il vecchio e si abbandona priva di energie sul letto di lui. Antonio sembra provare compassione, senza pronunciare troppe parole nemmeno lui: in una scena fortemente morbosa – omnia munda mundis – la spoglia e la riveste con gli abiti della defunta moglie (si presume). Un ulteriore ricovero per attacco d’asma prepara l’epilogo: Antonio fugge dall’ospedale, recupera i propri soldi che cede al sequestratore e restituisce il bimbo a Luminita; ma, in seguito a tali sforzi, avrà la crisi respiratoria definitiva. La ragazza (per i rimorsi?) riporta il bimbo allo sfruttatore da cui viene picchiata selvaggiamente.

Nel successivo, freddo ed incolore, mattino piemontese il giovane amico moldavo – scacciato anch’egli dal campo nomadi – l’aiuta a rimettersi in piedi per scomparire tra i passeggeri di un autobus lasciando irrisolti in noi alcuni dubbi: perché non se ne è tornata nella casa di Antonio ormai a sua disposizione? Ha un significato etico restituire il bambino ai genitori violenti e condannarlo ad una vita di stenti?

Rosi da questi dubbi diciamo il film si colloca nella schiera delle opere di indagine sul dramma degli immigrati – in questo caso Rom – con il carico ulteriore della deprivazione sensoriale attribuita alla vecchiaia, età in cui in troppi sono costretti a cedere cifre esorbitanti per cascami d’affetto.

Caratteristica del film è il fastidioso rumore di fondo della città, eccessivo, che soverchia tutto oltre ogni più logica situazione esperienziale, nella totale assenza di suoni gradevoli che, anche in mezzo alla strada o sui bus metropolitani, si percepiscono sempre: le radio nelle automobili, gli i-pod accesi a tutto volume dai ragazzini e le suonerie dei telefoni cellulari (il commento musicale è dei Plus). Gli autori, sceneggiatori e registi, fratelli De Serio hanno badato al massimo risparmio sulle sceneggiature (monotone), sui dialoghi (quasi del tutto assenti) come pure sui sentimenti: questa paradossale anestesia rende il film tragicomico. Nella vita normale, anche la più disgraziata, esiste la ricerca del piacere: la pelle si rilassa al calore di un tiepido sole o dell’acqua tiepida e lascia percepire questa semplice gratificazione nella piega di un muscolo del viso (o altrove); l’odore acido delle calze sudate, palesemente non cambiate da giorni dentro ai sempiterni scarponi, “deve” fare raggrinzire il naso di Antonio che spoglia la ragazza; nel caso opposto si dovrebbe mettere in evidenza un sentimento più forte del precedente. Siccome il film non si esprime in metafore, ma attraverso un linguaggio iperrealista, quest’assenza di sentimenti suggerisce quale sia l’idea di fondo che sostiene, come un basso continuo, l’opera dei due giovani registi: l’urgenza dei bisogni primari – mangiare, coprirsi, riposare – sconfigge ogni altro desiderio; ma teoria è del tutto arbitraria, come è stato dimostrato già più di cinquanta anni or sono (esperimento di Harlow, 1958).

Puntualizzando perciò, con pignoleria, che le opere di misericordia sono quattordici (e non sette), suddivise in due gruppi – misericordia spirituale emisericordia corporale – non siamo riusciti a trovare una qualche coerenza logica che giustifichi lo svolgimento dei fatti cinematografici: nemmeno la rabbia contro il mondo. Noi siamo portati ad immaginare che si stringano alleanze o si compiano soprusi per stare meglio e non per peggiorare la propria situazione. La confusione rabbiosa ma coerente, che va nel senso immaginato dai registi, si può scovare, ad esempio, nel racconto di Pasolini “La notte brava” (dalla raccolta Alì dagli occhi azzurri) che ben illustra il sentimento di avidità dei protagonisti. È evidente che l’avidità sia il vero filo conduttore del film, inconsapevolmente sfuggito ai due autori De Serio che, invece, hanno voluto “santificare” Antonio e Luminita facendo appello ai bisogni primari.

Ci sembra persino accessorio affermare che il film non ci è piaciuto, nonostante la bravura di Herlitzka e la buona fotografia di Piero Basso, ma la squallida iperrealistica scenografia di Giorgio Barullo; l’intelligente montaggio di Stefano Cravero e gli invisibili costumi di Carola Fenocchio: è l’invenzione sadomasochista di due autori narcisisti.

Pietro De Santis

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