Radice di due

Radice di due

di Adriano Bennicelli con Edy Angelillo e Michele La Ginestra, regia di Enrico Lamanna

Il “com’eravamo” è una specie di dottrina della nostalgia – del passato e del futuro – basata sul principio angoscioso della perdita: di giovinezza, salute, innocenza, potenzialità; equivale, “tout court”, all’angoscia di castrazione del ritenere che non ci sia concesso altro, rispetto a quanto “già servito in tavola”.

Sembra una prerogativa dell’età avanzata, ma non lo è visto che anche i quindicenni – quasi la totalità – fantasticano sul “com’eravamo” immaginando se stessi nell’età adulta e appesantiti da molteplici esperienze di vita alle spalle, mentre l’anagrafe indica loro qualcosa di diverso.

Radice di due propone una delle molteplici versioni dell’angoscia di castrazione.

Le luci si accendono illuminando una scena molto semplice: due costruzioni in legno – grossi scranni di ispirazione montessoriana – campeggiano nel mezzo del palcoscenico e si prestano a molteplici usi e significati. Su quello a destra è seduto un uomo: Tommaso detto Tom; a sinistra siede una donna avvolta in una coperta: Geraldina detta Jerry.

Tom dice di essere un pensionato e racconta la loro storia: i due attori divengono i bambini che si incontrano per la prima volta in un giardino. Jerry travolge Tom di parole difficili e proposte d’amicizia; gli insegna il gioco del battere le mani, che suggerisce la semplice felicità nell’età dell’oro; dichiara di aver vinto; lo bacia sulla guancia e si allontana, scomparendo anche dalla sua vita. Per raccontare l’accaduto, inutilmente Tom telefona all’amico Marco, figura misteriosa che, non rispondendo mai, lascia supporre che l’amicizia sia un frutto dell’immaginazione.

Ora Tom è adolescente e frequenta il liceo: ritrova Jerry che lo sommerge di un nuovo cumulo di bugie, che lo sceglie come fidanzato e lo spinge a improbabili prove di coraggio. Egli, ostinatamente, cerca di raccontare a Marco per condividere la propria esperienza, ma senza riuscire a superare il cordone sanitario innalzato dalla madre dell’amico. Alla fine del liceo Jerry scompare, per ricomparire, anni dopo, alla stazione ferroviaria: blocca Tom, gli impedisce di prendere un treno e lo induce a portarla a casa sua per iniziare la vita di coppia.

L’ultimo flash vede Tom e Jerry anziani, come nella scena iniziale: Jerry si muove a fatica.

Un’ennesima volta Tom vuole raccontare all’amico – questa volta una ferrea barriera è imposta dalla segretaria – che Jerry è affetta da una malattia invalidante e non riesce più a muovere le braccia.

La pièce si conclude nell’attesa dell’imminente morte di lei. L’autore abbozza un finale ottimistico: Tom coinvolge Jerry nel gioco delle mani; lei stancamente le solleva, riprende vigore e ritrova la freschezza dell’infanzia, età dell’oro. Buio, applausi.

Vogliamo aggiungere come il sentimento d’esclusione non abbia niente di naturale o di casuale, ma sia un sottoprodotto dell’educazione: aggredisce bambini ed adolescenti come un virus, nel periodo di vita che va dai sei anni (inizio della scuola primaria), ai tredici anni (inizio della pubertà) durante quello che Freud definiva (ingenuamente) “periodo di latenza” (dal desiderio sessuale).

All’educazione del sentimento d’esclusione pensiamo facesse riferimento Gesù quando ammoniva di non “scandalizzare” i bambini (Matteo 18,6-9). Ma in che modo l’educazione possa produrre un simile effetto è difficile spiegare se non ricorrendo agli esempi forniti dalla letteratura o dal teatro: Cesare Pavese (La luna e i falò) ricorda come l’età dell’oro dell’amicizia e del desiderio si manifestasse nei pomeriggi estivi della pre-adolescenza, per  smarrirsi e perdersi definitivamente con l’arrivo delle ragazze o dei ragazzi “che dividevano”. Più indietro nel tempo le splendide liriche di Saffo (Lirici Greci) lamentano la medesima: sono gli uomini a dividere le adolescenti, prendendole in spose.

Nel testo di Bennicelli – che rubacchia accortamente il senso dell’incertezza descritto in “Aspettando Godot” di Samuel Beckett –  sono le donne a separare gli uomini: le prosaiche madre e segretaria di Marco affermano la propria identità, esercitando un potere che costringe l’amico ad un mal inteso e castrato senso del dovere.

Il destino sentimentale di Tom e Jerry sembra invece ispirato alla storia di Forrest Gump (film di Robert Zemekis): gli incontri da bambini, adolescenti, adulti e la vita di coppia interrotta dalla morte per malattia. Bennicelli propone il medesimo tema della ragazza disillusa, bella ed emancipata che, per fuggire l’angoscia di castrazione (qui rappresentata dal padre macellaio) inventa i sogni, ricerca esperienze fallimentari e impone il proprio amore all’unico che non la tradisce.

Il testo gioca con le parole: i nomi Tom e Jerry si ispirano al cartone animato del gatto perseguitato dal topo; il titolo radice di due evoca il doppio significato di storia di una coppia e calcolo matematico. Con una certa facilità l’autore provoca il riso proponendo i problemini di aritmetica delle scuole elementari: quanti animali possiede un contadino o quanto spende la mamma al mercato; ma forse si compiace troppo delle trovate che fa ripetere quasi infinitamente.

La bravura dell’autore sta invece nello sfiorare, inconsapevolmente, due temi radicati nel nostro inconscio sociale: il monopolio del desiderio sessuale, detenuto dalla donna; il piacere del raccontare, quasi più forte del fare.

Ma lo tradisce un eccesso di inconsapevolezza, che lo sospinge verso un finale troppo drammatico e non adatto alla trama esile e sbrigativa: l’avventura umana non può limitarsi ad un po’ di contatti fisici ed ai battibecchi che ne conseguono.

A dispetto dei dubbi sul testo, abbiamo pienamente apprezzato le qualità espresse dagli attori attraverso la caratterizzazione dei personaggi: l’imbarazzato sadomasochismo di Tommaso, correttamente espresso da un prosaico Michele La Ginestra ed il gioioso narcisismo di Geraldina, interpretato da una poetica Edy Angelillo, ottimamente guidati da Enrico Lamanna.

(pietro de santis)

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