La nostra vita

La nostra vita

regia di Daniele Luchetti

All’ultimo Festival del Cinema di Cannes si è verificato uno dei tipici episodi di amore–odio tra Italia e Francia.
La commissione del festival ha invitato – provocatoriamente, ma correttamente – un film anti-berlusconiano giudicato interessante: “Draquila” di Sabina Guzzanti, provocando la reazione scomposta e stupidamente isterica di un piccolo ministro della cultura (istituzionalmente ai minimi storici in Italia) che si è rifiutato di partecipare alla manifestazione offendendo la nazione ospitante. Con lo stile degno di una Grande Paese e di un Grande Popolo, la risposta è stata l’attribuzione di un premio come attore protagonista ad un giovane talento italiano, Elio Germano, interprete di una pellicola di costume, dura nel rappresentare la vita nel tormentato paese in cui viviamo: “La nostra vita” di Daniele Luchetti.

Il giovane attore è stato molto complimentato dai rappresentanti del mondo culturale francese ed europeo: le sue dichiarazioni, quasi inevitabilmente, hanno sottolineato amore per l’Italia, ma non per i suoi governanti. Il precedentemente detto piccolo ministro della cultura ha ritenuto necessario criticare il giovane attore, ingrato verso coloro che gli danno (?) da mangiare: i governanti del suo paese.

Ormai il culto della personalità in Italia ha superato ogni possibile livello di guardia: come nella memoria delle storiche piene del Tevere addosso ai palazzi romani, dovrà essere indicato con un segno graffito sui muri, il massimo livello raggiunto dalla piaggeria.
Ma tant’è, e disgraziatamente, a questi eccessi conducono falsi ricordi storici: le grandezze della civiltà romana o della cultura italiana vengono confusa con la rozza presupponenza di qualche piccolo potente auto celebrantesi, da Ludovico il moro in avanti.

Rimane il fatto che, apprezzata la bravura del giovane Elio Germano, il film di Luchetti ci è sembrato brutto.
Eccone la trama: Claudio (Elio Germano) è un giovane geometra, rozzo ed ignorante, che lavora in un cantiere della periferia romana. E’ sposato, ha due figli, ed è in attesa del terzo.
Il rapporto con la moglie Elena (Isabella Ragonese) è pieno di vitalità violenta e volgare, ma anche sensuale: come nelle tradizione più scontata, la divisione dei compiti vede la donna pensare ai figli –  cui impartisce una sommaria educazione orecchiata dal buon senso comune – e l’uomo pensare solo a sgobbare e a far l’amore. La tipica famiglia matriarcale.
All’improvviso, però, l’esistenza viene sconvolta: Elena muore durante il parto.

Claudio non sa fare il padre, ma solo lavorare: intensifica perciò gli sforzi nell’unica direzione che è in grado di immaginare: far soldi per dare ai figli e a se stesso il benessere in mancanza dell’affetto che – a quanto sembra nell’immaginazione dell’autore – può essere erogato solo da esseri di sesso femminile.
Decide di trasformarsi in un tipico “fijio de ‘na mignotta” e cattivo: trasformazione oltremodo semplice, visto che è già strutturato in quell’ideologia.
Si caccia in un’impresa più grande di lui prendendo in subappalto un cantiere dal datore di lavoro: chiede in prestito una grossa somma di denaro a un amico spacciatore (Luca Zingaretti) e affida l’ultimo nato alla compagna di lui, una prostituta nera molto affettuosa e religiosa (Awa Ly), vera “mamy” di schiavistica memoria.

La vita di Claudio, disperatamente tesa verso un traguardo ignobile, coinvolge tutti: la sorella (Stefania Montorsi), ambiziosa di gestire il potere famigliare come ogni sorella; il fratello timido e pieno di poesia (Raoul Bova), inquilino solitario di in un appartamentino al mare; l’immigrata romena verso cui prova desiderio sessuale (Alina Berzuteano); il figlio lei (Marius Ignat), rimasto senza il padre misteriosamente scomparso (perché morto in un incidente sul lavoro e seppellito da Claudio all’insaputa di tutti).

Il film non ha un vero epilogo perché “la loro vita” prosegue in modo violento e volgare in una rincorsa disperata: i protagonisti si alleano con i più forti e sopraffanno i più deboli rivendicando, ipocritamente, un credito inesigibile.

In apparenza l’autore si accontenta di presentare “i fatti” nudi e crudi senza ambire ad una morale, ma poiché la realtà oggettiva non esiste – esiste solo l’interpretazione della realtà – è evidente che regista e sceneggiatori (Sandro Petraglia, Stefano Rulli e Daniele Luchetti) presentano la propria brutta morale nella descrizione di un mondo senza poesia.

La scelta di una tecnica cinematografica iper-realista rafforza questa lettura ed è funzionale al tentativo di impoverire la realtà rappresentata: le inquadrature dei personaggi, vicinissime ritagliano solo una parte del viso dalla quale non si è in grado di cogliere un sentimento oppure, lontanissime, lasciano appena intravedere i personaggi come figurine.
La fotografia propone gli ambienti degradati di una periferia priva di amore per gli spazi e per le persone che li popolano. Solo la visione di un mare povero e freddo dal balcone dell’appartamentino, consente una minima percezione di poesia immediatamente contraddetta.

Ci siamo convinti che Luchetti odia le donne, di un odio simile a quello che esse nutrono per se stesse (cioè per le “altre”): le presenta come esseri ottusi e prepotenti, annegati nella propria ansia di fare e prendersi cura. Ne fornisce un esempio esauriente la scena in cui la sorella di Claudio getta nella spazzatura i pesci  appena pescati (affettuosamente) dal fratello, per imporre quelli da lei comperati al supermercato (perché il mare è sporco e non si sa mai…).

Quando ero adolescente e mi ritrovavo in qualche ambiente per me particolarmente affascinante, nel quale immagini, suoni ed odori mi provocavano sentimenti di piacere quasi struggente, facevo la fantasia di registrare il tutto in presa diretta, orientando la macchina da presa con il mio sguardo: immaginavo, così, che anche altri avrebbero potuto provare le mie stesse emozioni. Naturalmente si trattava di una fantasia onnipotente con la quale avrei voluto imporre a tutti la meraviglia dei miei sentimenti.
Guardando il film ho immaginato che un simile pensiero onnipotente abbia attraversato la mente dell’autore, che ha preteso di rappresentare una realtà tanto violenta e degradata senza commenti per suggerire la sensazione di una società dell’invidia: solo che, con cattiva coscienza, credo abbia immaginato il dolore come sentimento portante.
Ma si tratta di un dolore generato dall’invidia.
Per fortuna “la nostra vita” non somiglia a quella cosa lì: magari c’è l’amore per la Lazio o l’affetto per un giocattolino tutto rotto conservato da epoche lontane, che costringono a fermarsi ed a sorridere.
Ci è piaciuta, perciò, la figura timida e poetica resa da Raoul Bova a tinte di acquerello: la tenue velatura, di uno pronto a spogliarsi dei propri brutti abiti, di Francescana memoria.

Fotografia di Claudio Collepiccolo;
Montaggio di Mirco Garrone;
Musiche di Franco Piersanti.
Una canzone di Vasco Rossi fa da leit motiv.

(pietro de santis)

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