Serata d’addio

Serata d’addio

di Paolo Villaggio
liberamente ispirato a:
“Il tabacco fa male” di Anton Cechov
“Il canto del cigno” di Anton Cechov 
“L’uomo dal fiore in bocca” di Luigi Pirandello
Regia di Andrea Buscemi

serata di addio

Paolo Villaggio di sé dice di essere diventato famoso come attore comico, per questo tutti si aspettano da lui che faccia sempre ridere. Invece quello che presenta ora dovrebbe essere uno spettacolo triste: una serata d’addio dopo cinquantaquattro anni o cinquantasei (dipende dalle battute) anni di vita in teatro.
Grazie a questo gioco sulla morte teatrale e sulla morte in teatro introduce il “pretesto” che anima  il suo testo, liberamente ispirato agli autori citati: come si può recitare al giorno d’oggi – “dopo cinquanta anni di cinema americano” – una scena drammatica come il monologo di Amleto senza avere il carisma di Ermete Zacconi o la prestanza di Vittorio Gassmann? Non si può, tant’è vero che il senso di quel monologo, proposto da Villaggio si condensa, in un: “Ma porca p………” unica battuta che si concede, quale Amleto nottambulo chiuso nella stanza da bagno,  pensando all’assurdità della morte e della vita che, questo sì, non dipende né dal carisma né dalla bellezza fisica.
Perciò anche un attore palesemente brutto – e vincolato ad un cliché di comico – può affrontare il medesimo terribile argomento e raccontare il suo Cechov tragico ed il suo tragico Pirandello cercando la propria credibilità, rendendo, cioè, grottescamente comico anche il pensiero della morte.
Così ha narrato la vorticosa storia: “Il fumo uccide” in cui l’imbarazzo (di checoviana memoria) di fumare un’unica sigaretta si tramuta nel dramma di un tumore devastante, che ci propone – in “Una vita all’asta” – le tematiche dell’uomo dal fiore in bocca privo di ogni inibizione, non avendo più speranze ma che si arrende dolcemente al ricordo della prima e forse unica fidanzata in “l’ultima fidanzata” – la morte immaginiamo noi – pensando al “Canto del cigno” di Anton Cechov.
Sembra un riassunto della storia del teatro, ma l’intento di Paolo Villaggio crediamo diverso: quello di “dire la sua” con il suo corpo poco eroico e la sua voce, per altro non sgradevole, perché la verità – parola grossa –  e la tenerezza – parola più accessibile – debbono essere concesse a tutti, anche alle persone “mediocri”.
Così in realtà coglie l’occasione di parlar male degli altri, che siano attori, politici o fisici di fama mondiale senza nascondere di soffrire di quella malattia che fa “uscire un filo di bava verde dall’angolo bocca”: chissà perché tutti gli attori adoperano la stessa metafora.
Bisogna aggiungere che Villaggio ha la grande capacità di saper condurre il pubblico proprio dove desidera però è anche un po’ avaro: il suo spettacolo può durare fino ad un’ora e cinquanta ma, la sera del 20 gennaio nel teatrino di Morrovalle, è durato poco più di un’ora.
Il testo è il suo e nessuno può criticarlo: lui si siede su di una sedia, in mezzo al palcoscenico, vestito di una lunga palandrana scura (addirittura viola ricordo erroneamente…) e ostacolato dall’enorme pancia che ormai è la sua icona apre la “famosa” valigia dell’attore, che contiene veramente tre sciocchezze. Ed egli prendendole in mano incomincia a parlare rivolto al pubblico. Parla di “se stesso” e perciò allunga o restringe il brodo.
Va però detto che ieri sera a Morrovalle c’era una gran nebbia e faceva freddo; che per arrivare a Roma ci vogliono tre ore e che di fuori alle 10 e 45 c’era il suo autista con la macchina pronta ed il motore acceso.
Però gli voglio riconoscere un gesto generoso: alle 10 e 30 era già chiuso il sipario al suono di “What a Wonderful World” di Louis Armstrong e dal palcoscenico buio ha chiamato il tecnico per leggere qualcosa. Ha raccontato di un incontro con Claudio Magris in un Caffé di Trieste e dell’irruzione di Margherita Hack che “ruggendo come un leone sopra lo sgabello” dichiarava che Dio non esiste poiché l’universo è costituito di galassie che si allontanano le une dalle altre alla velocità della luce. Ha confrontato l’arroganza di quest’affermazione con l’umiltà della poesia di San Francesco “Il cantico delle creature”, letta al suono di Imagine di John Lennon: che modo diverso di osservare il mondo! Un bel gesto per un avaro.

pietrodesantis

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