L’innesto

L’innesto

di Luigi Pirandello

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Sostiene Pirandello, in questo lavoro del 1917, che un innesto per riuscire deve trovare la pianta “in succhio”, in amore: è l’amore che consente l’insediamento della vita. Laura Banti subisce violenza in un parco romano: picchiata e stuprata viene ricondotta a casa dalla forza pubblica. L’onta dell’abuso trasforma una tranquilla vita borghese e ne deforma i contorni ponendo i protagonisti di fronte al dilemma di un aborto “d’onore”. A dispetto dei settanta anni trascorsi dalla scrittura del testo, il dilemma dell’aborto d’onore rimane cristallinamente intatto; Pirandello, con idealistica fantasia, lo risolve nell’ipotesi poetica dell’innesto. Laura Banti è rimasta incinta perché donna in amore, innamorata del marito Giorgio: il figlio, frutto dell’amore, è perciò comunque di Giorgio.

Dei molti personaggi in scena alcuni assumono un valore essenziale per il dipanarsi della tesi pirandelliana: la madre di lei, Francesca vera rappresentante dell’ipocrisia borghese; il medico di famiglia, dottor Romeri, autentico campione dell’ipocrisia scientifica, ed i due popolani Filippo e la Zena. Proprio questi due porgono la chiave di volta alla dimostrazione filosofica del drammaturgo. È Filippo, infatti, a proporre a Laura l’allegoria dell’innesto mentre la Zena le racconta la propria storia di sesso con il giovanissimo Giorgio Banti, conclusa con la nascita di un figlio che la contadina, coraggiosamente, insiste nel dichiarare generato dall’amore con il proprio marito, sebbene ammetta di aver ricevuto una cospicua dote in cambio del silenzio.

Bisogna apprezzare la bravura di tutti gli interpreti: Maria Ariis  (Laura Banti), Francesco Colella (Giorgio Banti), Marianella Laszlo (Francesca Betti), Sonia Bonacina (Giulietta), Oreste Valente (Arturo Nelli), Carlotta Viscovo (la Signora Nelli e la Zena), Luigi Mezzanotte (il dottor Romeri), Nicola Stravalaci (il delegato),  Sergio Mascherpa (Filippo), Aurora Falcone (la cameriera); ma qualche parola va spesa per la drammaturgia e la regia di Monica Conti. Apprezzando il buon ritmo ed i validi movimenti scenici rileviamo due idee piuttosto obsolete e qui grottescamente espresse: gli uomini sono tutti, comunque, stupratori; le donne invece son le sole in grado di amare. Diamo conto di queste nostre affermazioni riferendo i momenti iniziali del dramma, in cui la donna violentata viene trascinata dalle guardie come una condannata al patibolo mentre il marito ed il bruto servitore si muovono rigidamente in giro manifestando un’eccitazione priapica o una sodomia in atto; e sottolineando i momenti in cui la donna esibisce il proprio corpo nudo in un rituale di seduzione che la porterà, dopo la rivelazione dell’innesto, a convincere se stessa ed il riluttante marito di come il frutto d’amore appartenga proprio a lui.


Contrari all’aborto comunque, siamo d’accordo con il desiderio inconscio che qualsiasi figlio non sia mai un ospite indesiderato; lo siamo meno con la razionalizzazione pseudo-filosofica dell’autore. Non siamo invece d’accordo con la lettura della regista, che non si è avveduta di come Pirandello parli di una donna stupratrice (del proprio marito) e di due uomini teneramente innamorati: il marito stesso, che lotta contro le imposizioni della cultura borghese, e Filippo essere tutto natura, una sorta di Papageno traslato. Le scene di Andrea Taddei, oltremodo scarne e limitate ad una gradinata al centro del palcoscenico, ad un certo numero di piante in vaso e poche sedie, insieme alle luci, di Gigi Saccomandi, hanno arredato efficacemente lo spazio enorme e suggestivo del Teatro India. Non ci sono musiche di scena, eccezion fatta per una marcia funebre di tradizione bandistica; i suoni, strettamente  legati a fenomeni naturali, sono stati ripresi da Alessandro Saviozzi. L’India è un bello spazio scenico in cui lo spettatore è spartanamente accolto: il teatro moderno non ha più bisogno del pubblico?
al Teatro India, Lungotevere dei Papareschi – Roma, fino al 16 ottobre
in collaborazione con il Teatro Giacosa di Ivrea

(p.desantis)

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