Guerra in camicia nera

Guerra in camicia nera

Giuseppe Berto (1914 – 1978) era il primo di cinque figli di un maresciallo dei Carabinieri che, per amore della moglie sua compagna d’infanzia, abbandonò l’Arma, e s’improvvisò venditore ambulante di cappelli ed ombrelli. Il giovane Berto, frequentò il ginnasio nel Collegio Salesiano Astori di Mogliano Veneto, e studiò con grande diligenza soffrendo al pensiero dei sacrifici economici sostenuti dalla famiglia, prima che prevalesse in lui il fastidio della quotidianità conseguente, forse, all’ingresso negli Avanguardisti (1929) e successivamente nei Giovani Fascisti. Costretto ad arrangiarsi per sbarcare il lunario, si arruolò nel Regio Esercito e, militare, si iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova, la meno costosa.

Partì volontario per l’Africa Orientale e rimase ferito al piede destro, motivo per cui fu insignito di una medaglia d’argento e una di bronzo al valor militare. Il sentimento patriottico contraddistinse l’intera giovinezza di Berto, come conseguenza dell’educazione fascista. Dalla fine degli anni Trenta, fece l’insegnante per vivere, ma dall’esperienza ricavò la persuasione che quello non era il suo mestiere. Preferì arruolarsi come ufficiale nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, chiedendo di essere inviato a combattere in Africa Settentrionale: qui iniziò la vicenda, riferita in questo libro, che modificò per sempre la sua vita.

Leggere un bel libro, talvolta, determina la comprensione di qualche cosa che si è letto, visto o sentito altrove. Così è capitato, per me, con la lettura del diario di guerra – o diario di vita – scarno, essenziale, non retorico, umano e disincantato opera di un giovane il cui tentativo di perseguire un’illusione, appare utopico sin dal primo momento, dall’atterraggio a Tripoli di un trimotore scampato ai possibili attacchi degli aerei dei caccia alleati.

Il libro merita di essere letto perciò non trovo il senso di farne una sintesi; invece mi sembra opportuno segnalare quegli episodi che per me spiccano all’interno di una narrazione lucida, che delinea il passaggio dalla gioventù alla maturità; dall’illusione al rapporto crudo con la realtà, tragica e sincera, che spinge al tentativo di “farla franca” lasciando tutto e tutti – e cioè i compagni, i sopravissuti e quella guarnigione tanto focosamente raggiunta – per tornare in Italia subito dopo il disastro di El Hamma, nella fine del mese di marzo 1943. Consapevole della viltà che traspare da questo desiderio, l’autore si conforta nella considerazione che, però, salverà la vita! Riecheggia, in quelle parole, una famosa poesia di Archiloco (680-645) poeta e soldato mercenario che perse la vita in combattimento:

Uno dei Salii si fa bello/ Dello scudo che, fuggendo/ Abbandonai in un cespuglio/ Ma la vita ho salvato!/ Ne comprerò uno più bello.

Episodio rilevante del racconto è la relazione, più sessuale che sentimentale, con una giovane poco più che adolescente, non bella – anzi forse brutta – ma dagli occhi espressivi: si abbandona ad un piacere effimero, privo di aspettative, non rispettoso dei sentimenti ingenui di una ragazza che vive dentro a un sogno che lo include, del quale egli è spettatore indifferente. La vicenda porta alla mente  il ricordo difficile di un film di Pasolini: “Salò o le 120 giornate di Sodoma”; film tremendo, nel quale i sentimenti altrui vengono schiacciati in considerazione della prossima fine e della disperazione.

C’è, nel diario, la tenera apparizione di una ragazza nera che, per consolazione e affetto verso un gruppo di prigionieri – di cui l’autore fa parte –, separatasi da altri giovani che li ricoprono d’insulti, fa verso di loro il saluto romano mentre passa il camion che li trasporta: ricorda Antigone, il cui coraggio sfida Creonte, per la sepoltura pietosa del fratello Polinice.

C’è il viaggio verso il mare e la prigionia, che muovono ad una serenità tragica e nostalgica e suggeriscono un altro romanzo, il cui contenuto è molto lontano; si tratta di On the road di Jack Kerouac, le cui pagine finali narrano dei lunghi, lunghissimi cieli del New Jersey e del mare che si pone davanti; cioè dell’infinito, di quanto si sarebbe potuto fare e non si fece… oltre a Il male oscuro, dello stesso Giuseppe Berto

Brevemente il romanzo narra della campagna d’Africa, nel quale il protagonista si gettò per una sorta di lealtà e di amor patrio, arruolato nelle camicie nere. Il viaggio, iniziato con il trimotore che atterra il 12 settembre del ’42 a Tripoli (Libia) poco prima del disastro di El Alamein (23 ottobre – 11 novembre), finisce con la resa della guarnigione delle camicie nere il 13 maggio del ’43 dopo il disastro di Takrouna (Tunisia). Nel periodo descritto si succedono amicizie, osservazioni, considerazioni, emozioni e compassioni con frammenti di vita in cui appaiono personaggi la cui parabola è brevissima, eppure lascia il segno di una presenza, reale perché priva di solennità ma densa dei sentimenti, semplici e sperimentati: la paura, il desiderio, il bisogno d’affetto…

Tra le molte figure maschili – i protagonisti come nell’Iliade vacillano tra eroismi, piccinerie, volgarità, dignità palese o intima – spiccano le poche figurine femminili: tre bambine, in particolare la piccola Odette che gli regala un bicchiere di latte; la diciottenne Maria che gli regala un corpo fremente e un pensiero pieno di sogni; la nera Antigone del saluto romano. Lontano, nello spazio e nel tempo, tre giovani donne italiane partecipano a una giovane costellazione fascista.

Intensa, in queste pagine, l’auto osservazione ed una presa di coscienza impietosa, fatta di considerazioni sulle debolezze proprie e altrui; sui confronti tra poveri in spirito e poveri tout court; all’interno di un mondo africano che fu bellissimo da Roma antica (146 a.C. fine della terza guerra punica) fino alla distruzione operata a partire dalla Seconda guerra mondiale.

Ciò che resta è il corpo fremente di una giovane che sogna, il bicchiere di latte di una bambina, il vestito azzurro di una ragazza pietosa…

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