Beethoven/Prokof’ev/Xenakis

Beethoven/Prokof’ev/Xenakis

Direttore: Alejo Pérez ; Pianoforte: François-Frédéric Guy

Ludwig van Beethoven Concerto per pianoforte e orchestra n.3 , Iannis Xenakis Metastaseis, Sergej Prokof’ev Sinfonia n. 5 . Introduzione all’ascolto di Stefano Catucci , Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma

Il teatro dell’Opera di Roma propone una scarna, ma bellissima, stagione – denominata Specchi del Tempo – di concerti di musica sinfonica, ognuno articolato su tre brani: uno romantico (Beethoven. Brahms, Tchajkovskij, uno del novecento storico (Bartok, Petrassi, Prokof’ev, Respighi, Sibelius) ed uno di musica cosiddetta contemporanea (Adès, Berio, Casale, Donatoni, Rihm, Xenakis).

L’irruenza o la rarefazione o la cacofonia – spesso fastidiose – della musica contemporanea vengono ampiamente temperate dalle melodie e dalle armonie degli altri due brani, che completano i programmi delle serate; e i brani contemporanei, nelle loro brevi durate, riescono ad essere apprezzati tanto da incuriosire persino un pubblico non proprio abituato a queste sonorità. Altre tre componenti contribuiscono al successo della proposta: la bellezza della sala da concerto; la vicinanza fisica del corpo orchestrale e strumentale, sistemato su di un palco che si estende dal proscenio e si adagia – coprendole – sulle prime file della platea; l’accessibilità dei biglietti (prezzo unico di 20 euro). La speranza nostra (e di molti) è che il gradimento della proposta non spinga l’amministrazione del teatro verso una politica di speculazione, facendo lievitare i prezzi. Ma nel frattempo ci fa piacere presentare la serata cui abbiamo partecipato e dire qualcosa su compositori ed esecutori.

Xenakis (1922 – 2001) nacque in Romania e visse in Grecia dall’infanzia. Studiò architettura e ingegneria ad Atene e le sue fantasie furono perennemente tese tra il particolare ed il generale e animate da un impegno politico rivoluzionario, in senso teorico e pratico. Prese parte alla resistenza greca in opposizione al fascismo, durante la seconda guerra mondiale e nella prima fase della guerra civile: ne trasse una forte coerenza e una menomazione fisica. Emigrato in Francia, nel ’47 diede inizio alla propria avventura culturale e professionale nello studio di Le Corbusier, partecipando alla progettazione di molteplici opere, in particolare il famoso Padiglione Philips per la Fiera di Bruxelles (1958) basato sulle sue concezioni formali, le stesse già utilizzate nella composizione Metastaseis, scritta ed eseguita quattro anni prima.

La natura “duale” dell’arte e della tecnica (l’antica τέχνη) è il fondamento della teoria di Xenakis: un’espressione artistica deve essere basata su di un calcolo matematico, ma questo può ha la potenzialità di essere realizzato indifferentemente dal tipo di materiale (concezione quasi kantiana di noumeno e fenomeno). Gli studi di composizione di Xenakis erano iniziati sotto la guida di Honegger e Milhaud, eccessivamente retrogradi per lui, e presto in conflitto. Si rivolse a Olivier Messiaen (1951) – e alle sue serie numeriche – e grazie a lui ebbe modo di accrescere la propria consapevolezza teorica assieme alle tecniche compositive. La prima esecuzione di Metastaseis venne eseguita al Festival di Donaueschingen; il brano, e i due successivi, diedero a Xenakis una notorietà internazionale, che gli permise di dedicarsi esclusivamente alla musica.

Metastaseis è una composizione per orchestra di 61 strumenti, sostanzialmente concepita con altrettante parti reali. Inizia con il pieno degli gli archi che, a partire da un sol, scivolano gradualmente in su e in giù attraverso dei glissando, mentre le percussioni segnano la scansione temporale. La massa sonora varia dalla rarefazione eterea, all’insieme “quasi” caotico proponendo una effettiva relazione di causa/effetto con il titolo e le intenzioni; e non priva di un certo fascino, conservato – quest’ultimo – grazie all’opportuna brevità del brano.

Il concerto per pianoforte e orchestra n. 3 di Ludwig van Beethoven è in tre movimenti: il primo movimento (allegro con brio) si apre con un tema proposto dal clarinetto, ripetuto dal pianoforte e poi dagli archi e dai legni. L’orchestra ripete i temi principali e, con una serie di scale, entra il pianoforte. Nel secondo movimento (largo) il pianoforte espone il tema principale, ricco di arpeggi e di scale di terza, cui risponde l’intera orchestra nel secondo tema. I temi vengono ripresi con piccole variazioni verso la conclusione del brano, raggiunta attraverso arpeggi di pianoforte e orchestra ed un solenne accordo finale. Il terzo movimento è un rondò allegro, quasi spiritoso: il pianoforte espone più volte il tema principale, ripetuto dall’orchestra, intervallandone le esecuzioni con piccolissime cadenze. A metà si inserisce un nuovo tema dedicato ai clarinetti, con il piano che tace o trilla. Violini e i flauti propongono il tema finale, del quale si impadronisce il pianoforte per concludere con una serie di cadenze nel classico stile beethoveniano.

Sergej Sergeevič Prokof’ev (1891 – 1952) nacque da una famiglia relativamente benestante; da bambino amava la musica e gli scacchi. Iniziò a prendere lezioni di composizione nel 1902 e le prime opere risalgono al 1908. Studiò sotto la guida del maestro Nikolaj Rimskij-Korsakov: sin dalle prime opere delinea un inconfondibile stile, tonale caratterizzato da modulazioni repentine e frequenti, passaggi carichi di violenza e vivaci trovate timbriche per l’orchestra. Nel 1914 Prokof’ev vince il premio Anton Rubinstein come miglior studente di pianoforte. Alla conclusione della prima guerra mondiale comincia a viaggiare in Europa e in America. Il suo ritorno nell’Unione Sovietica risale al 1923: egli volle partecipare alla trasformazione sociale e culturale del suo paese; contribuendo al cambiamento con la musica divenne uno dei massimi artisti della scuola russa di quel periodo. La sua musica ironica, talvolta sarcastica, ma istintiva e ritmicamente travolgente rappresentava la nuova anima russa. Nel 1929 inizia un nuovo tour negli Stati Uniti e poi attraverso l’Europa e nel 1936 Prokof’ev e famiglia tornano definitivamente in Russia.

In quel periodo la politica ufficiale dell’Unione Sovietica escludeva le influenze straniere nell’arte costringendo all’isolamento la comunità artistica sovietica. In questo clima Prokof’ev si dedicò alla composizione di musica per bambini e alla Cantata per il ventennale della Rivoluzione d’Ottobre, mai eseguita pubblicamente. Nel 1944 si trasferì in una tenuta fuori Mosca e compose la quinta sinfonia Op. 100, la sua opera più apprezzata dal pubblico. Con la fine della guerra l’attenzione del partito si rivolse contro la musica di Prokof’ev, vista come un grave esempio di formalismo e pericolosa per il popolo sovietico in quanto complicata ed astratta. Gli ultimi progetti vennero cancellati dai programmi del teatro Kirov e a causa di questo Prokof’ev si ritirò dalle scene. La sua ultima opera fu la settima sinfonia dal sapore dolceamaro. Morì nello stesso giorno di Stalin e al suo funerale, posticipato di una settimana per motivi politici, parteciparono solamente quaranta persone. L’epilogo amaro della vita, insieme alla brillantezza dell’inventiva artistica, lascia la suggestione di un Mozart del XX secolo.

La Quinta sinfonia fu scritta nell’estate del 1944, in un mese. L’opera è in quattro movimenti: il primo movimento (andante) è in forma-sonata: due temi, uno calmo e l’altro animato da un tremolo degli archi, si intrecciano in uno sviluppo sempre più concitato che si conclude con frasi elettrizzanti, punteggiate da colpi di gong e da tremoli del pianoforte. Il secondo movimento (allegro) è nel tipico stile toccatistico di Prokofiev (scale e arpeggi ascendenti e discendenti con variazioni). Il terzo movimento (adagio) è lento e sognante, pieno di nostalgia, con un culmine drammatico da quale ridiscende al clima sognante iniziale. Il finale (allegro) inizia con una introduzione dei violoncelli per lanciarsi in un rondò: il tema principale giocoso viene posto in contrasto con due episodi più calmi, del flauto e degli archi. Nella parte finale la musica degenera in una sorta di follia maniacale, interrotta da un quartetto d’archi che suona “note stonate”, e dagli interventi delle trombe: l’accordo finale suona particolarmente ironico.

All’ascolto, il concerto n. 3 di Beethoven è stato sicuramente piacevole ed apprezzato, nonostante alcune indecisioni dell’orchestra che ci hanno colto di sorpresa (ed hanno sorpreso – forse – anche François-Frédéric Guy al pianoforte); Alejo Pérez ha diretto questo brano senza la bacchetta, secondo una moda attuale che spinge a privarsene, in genere, per le esecuzioni dalla musica barocca fino al ‘700 incluso, con atteggiamento “filologico”. Il farlo non sempre ci sembra indicato, soprattutto quando le compagini orchestrali sono ricche di strumenti e numerose, come nel caso delle esecuzioni beethoveniane. Del brano di Xenakis abbiamo già accennato: in questo caso l’orchestra non è nemmeno giudicabile come corpo unico, visto che ogni strumento è “di fatto” solista. Ma il brano è interessante quanto meno da un punto di vista storico, e non è privo di una sua eleganza così come i primi esemplari di oggetti in plastica, che costituiscono il cosiddetto “modernariato”. Noi apprezziamo particolarmente Prokof’ev: ci piace la sua inventiva, il brio, la vitalità espressa dalla musica i cui accenti popolari ce la fanno amare allo stesso modo dei quadri di Chagall e dei racconti di Bulgakov. Troviamo in Prokof’ev, insieme alla musica, l’amore per le proprie origini e la propria terra. Della sinfonia n. 5 ci è sembrato particolarmente riuscito e ben eseguito il secondo movimento, nel quale abbiamo percepito quella che è – per noi – l’anima del musicista russo.

Anche se l’esecuzione non rimarrà nella storia, tuttavia ci ha convinto: bravi il solista ed il direttore d’orchestra, convincente la compagine orchestrale.

pietrodesantis

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