La classe – Entre les murs

La classe – Entre les murs

Regia di Laurent Cantet
Con François Bégaudeau,  Nassim Amrabt, Laura Baquela, Cherif Bournaïdja Rachidi,
Juliette Demaille, Dalla Decouré

“François Bégaudeau è insegnante di lettere in una scuola media superiore parigina.
Grazie alla sua esperienza, narrata in una sorta di diario che attraversa un intero anno scolastico, il regista invita a riflettere su come l’equilibrio di una realtà-classe oggi possa rivelarsi estremamente precario.
Senza enfasi né retorica il docente e il regista ci mostrano quanto i ruoli di insegnante e di studente siano oggi sempre più complessi e, in qualche misura, da ricostruire dalle fondamenta.
Potrà anche sembrare un po’ lento e dilatato il narrare di Cantet in questa occasione ma, per chi ha tempo per ascoltare, in particolare se genitore, il suo è un film prezioso.”

Queste frasi sono state estrapolate dalle note di presentazione del film, che ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes.
Gli interpreti sono tutti presi dalla scuola: i ragazzi frequentano realmente una classe scolastica – tutti tranne uno – e mantengono gli stessi nomi dei personaggi che rappresentano:  se stessi, e gli studenti in generale.
Si tratta di una sorta di documentario che tenta di descrivere la scuola dal suo interno, cioè dentro le mura, piuttosto che raccontarne una storia: il risultato è quello di lasciare aperta una serie di interrogativi.

Quando avevo venti anni, coltivavo la fantasia di girare un film in cui la camera riprendesse esattamente ciò che vedevo, registrando suoni e rumori: lo stormire delle foglie, il crepitare dei rami nel fuoco proprio come essi arrivavano alle mie orecchie.
La fantasia perseguiva l’ulteriore fantasia che lo stesso flusso di pensieri, sentimenti ed emozioni, potesse essere provato anche da un’altra persona, lontana nel tempo e nello spazio, solo guardando il filmato, poiché sarebbe stata posta nelle condizioni simili alle mie.
Credevo cioè, ingenuamente, che solo chi provi le medesime esperienze sia in grado di ricomprenderle e non immaginavo che la semplice ripresa cinematografica costituisca già un’interferenza significativa, un’intenzione ulteriore.

Pare che Cantet, regista del film, parta dallo stesso principio chiaramente e clamorosamente falso. Infatti i meccanismi di identificazione e proiezione possono suscitare, in due persone diverse, idee diametralmente opposte: immaginando la scuola come luogo sacro e severo, la prima persona coglierà nell’atteggiamento dei ragazzi il sacrilegio dell’ignoranza e della ribellione; ritenendo, invece, la personalità dei ragazzi assolutamente degna di rispetto, la seconda persona vedrà nel comportamento dell’insegnante tutta la goffa presunzione tipica del ruolo.

Perciò la serie di interrogativi, che rimane aperta nel film, scaturisce dal fatto che non sono dati gli elementi per comprendere cosa abbia in testa il professore, quale sia la storia della classe, quale politica scolastica venga attuata in quell’istituto: la difesa delle istituzioni? Il tentativo di salvare una generazione condannata al disastro? L’amore verso i ragazzi? La voglia di essere ammirati? La salvaguardia dei posti di lavoro? Il racconto della cultura?

Veramente dal film emerge, prima di tutto, la rappresentazione di un gruppo di persone modeste –  i professori che tentano di svolgere il proprio lavoro di impiegati statali – disturbate nella loro attività dai ragazzi, proprio come se l’insegnamento non riguardasse questi ultimi: se un metodo educativo non funziona, come si desume dal comportamento della classe, significa che esso è sbagliato; allora bisogna riflettere sui motivi dell’errore e non sulla cattiveria del mondo e questo valga per tutti, francesi o italiani.

L’essenza del film si incentra sul rapporto, che sembra abbastanza buono, tra l’insegnante e i suoi allievi: questi tentano di sedurre il loro prof, come sempre accade, ed il prof sembra stare al gioco cosicché quello diventa didatticamente produttivo.

Però il prof si smarrisce proprio nella vanità della seduzione: ritiene che le due rappresentanti di classe non debbano riferire ai propri compagni tutto quel che sentono partecipando alle riunioni e, in particolare, ad uno di essi, un ragazzo molto bello e difficile che rifiuta di usare i libri e svolgere i compiti.

Chiarificatore, per chi sia interessato a rifletterci su, è l’episodio del colloquio con la mamma del ragazzo, dignitosissima africana regalmente vestita in splendide vesti colorate, che rifiuta di parlare francese e afferma nella propria lingua nativa che il figlio è un bravo ragazzo.
Così traduce colui che la accompagna.
Sappiamo per esperienza, che gli insegnanti ritengono tali dichiarazioni semplici difese d’ufficio oppure argomenti che non entrano nel merito del problema: ciò è anche sempre vero, ma è altrettanto vero che troppo spesso i ragazzi trovano nella scuola tensioni ed imbarazzi di cui i professori non si avvedono o ne sottovalutano la portata.

Accade così che il ragazzo venga convocato dal consiglio di disciplina ed espulso dalla scuola con l’opportunità di essere inserito in un’altra, così come è pratica consueta in Francia.

Questo è l’acme del film da cui si discende rapidamente verso l’epilogo proprio come in un sacrificio rituale: il trauma viene presto assorbito e la vita scolastica riprende normale.
L’arrivo delle vacanze estive ora può essere festeggiato secondo il rito pacificatore con la tipica partita di calcio tra insegnanti e studenti nella quale, finalmente, i ruoli di bravura e di potere sono invertiti.

Nel film sembra vengano anche ventilate tensioni culturali perché i componenti della classe provengono da svariate nazioni: è sufficiente un nome esotico o il colore della pelle per immaginare problemi di natura diversa da quelli tipici dell’adolescenza? Non si dovrebbe misurare sempre e comunque l’invadenza nei rapporti di potere con il metro del rispetto per l’altro?
 

Pietro De Santis

 

 

 

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