Bello di papà

Bello di papà

Vincenzo Salemme è uno dei più affermati commediografi italiani in attività, nonché attore, regista e sceneggiatore piuttosto brillante, a cui attribuiamo però alti e bassi. Abbiamo trovato poetici e straordinariamente efficaci i primi due testi teatrali che abbiamo applaudito a Roma: La gente vuole ridere! scritta nel 1993; …e fuori nevica! del 1995 che, oltre a tutto, hanno rivelato alcuni giovani (allora) talenti teatrali quali Paolantoni, Buccirosso, Paone oltre allo stesso Salemme.

Abbiamo cominciato a trovare ripetitivi ed un po’ stucchevoli altri testi successivi, come Premiata pasticceria Bellavista del 1997, innanzitutto a causa di un’eccessiva ricerca della battuta ad effetto e poi, anche, per una reiterata ripetizione degli stessi temi: la follia, il senso d’inferiorità, la sopravvalutazione della pratica sessuale, il tradimento; trattati in modo piuttosto ipocrita, anche se disincantato in apparenza. Anche Bello di papà del 2006 fa parte di questa categoria.

Salemme, nel presentare la sua commedia, racconta del protagonista: «Antonio ha paura di ogni novità, è un vero conservatore, conservatore di danaro, ma soprattutto conservatore di affetti. Profondamente sarebbe un buono, ma costantemente ha paura di essere fregato, è forse per questo che non si è mai sposato, è forse per questo che adesso sta con una bellissima ragazza ucraina, che gli piace da morire, ma che allo stesso tempo teme come un ingombrante invasore, invasore della casa e soprattutto del conto corrente perché Marina, l’ucraina, vorrebbe costruire una famiglia con Antonio, Marina vorrebbe soprattutto (questa la cosa più terrificante e spaventevole per il nostro dentista) dei figli. Antonio teme i figli più di ogni altra cosa perché i bambini sono di un egoismo assoluto e lui, egoista per paura, questo proprio non può accettarlo. È così che nasce l’idea di questa commedia, da questo paradosso: un uomo che non vuole avere figli costretto a ricevere in casa un suo coetaneo che ha bisogno di ritornare ad essere un figlio.»

Questo amore per il paradosso – il coetaneo che ha bisogno di ritornare ad essere figlio – è il motore ma anche il limite della commedia. Il pensiero va ad Affabulazione di Pier Paolo Pasolini: confessione di un padre che si commisura con il proprio figlio, giovane adulto, nei confronti del quale è in atto una tensione sessuale e un confronto ideologico che finisce in tragedia; in certo qual modo l’argomento, trattato in maniera grottesca, rimane lo stesso. Si tratta di un Complesso d’Edipo surreale, perché fuori tempo e fuori ruolo, ma forse per questo, più pruriginoso: la fidanzata di Antonio è una ragazza bellissima; è ucraina (perciò disinibita); è desiderosa della maternità (perciò fisicamente disponibile). E l’autore insiste molto in un gioco verbale composto di panettoni, intendendo le natiche della ragazza; e di zampognari, intendendo il pene in erezione del padrone di casa.

La grande commedia – vedi Shakespeare o Goldoni – ha sempre presentato temi di una profondità quasi insondabile dentro un tessuto denso di ironie e divertimenti; ma Salemme, pur ispirandosi ai grandi maestri storici e a Eduardo De Filippo, suo maestro autentico, ricorre troppo al luogo comune, alla battuta ovvia, che propone più volentieri i caratteri volgari della routine televisiva che quelli spudorati e veramente disincantati del grande teatro e della grande letteratura.

La critica all’egoismo dei figli, cui fa cenno l’autore, in realtà sembra indirizzata invece all’ottusità dei genitori – particolarmente delle mamme, visto che i padri sono sempre latitanti – che esaltano sempre e comunque ogni più stupida e insignificante azione dei propri pargoli, rendendoli inetti, prepotenti ed egoisti; ma Salemme non ha il coraggio di avanzare affermazioni antifemministe delle quali, però, gli attribuiamo il credito.

In breve la storia è questa: Antonio (Biagio Izzo) e Marina (Yuliya Mayarchuck) nella loro bella casa ricevono la visita dello psichiatra (Mario Porfito) che tiene in cura Emilio (Domenico Aria), suo vecchio amico. Questi è affetto da uno strano delirio-depressivo per il quale si rende necessaria la stranissima terapia di comportarsi da figlio dell’amico e vivere con lui per un periodo di un mese, durante il quale invertire la regressione allo stadio infantile della latenza (sessuale) per ritornare psichicamente alla maggiore età ed alla completa maturazione sessuale. La bella Marina, desiderosa di maternità, è felice di avere un figlio così prestante ed affettuoso e trascina Antonio in questo comico (?) grottesco delirio, nel quale si avvicendano altri personaggi: la giovane e disinibita allieva psichiatra (Luana Pantaleo) che si deve prestare ai giochi (anche sessuali) di Emilio; Attilio (Arduino Speranza) fratello basso e ipodotato di Antonio, con la sua procacissima moglie (Rosa Miranda); la madre (Adele Pandolfi).

In una successione di compleanni settimanali che festeggiano i 7 anni, i 15 ed i 18 anni; tra battutacce di varia efficacia, la claudicante commedia arriva al finale, che vuole l’emancipazione dell’ipotetico figlio dall’ipotetico padre. Si tratta di un finale a sorpresa che, secondo noi, si ispira all’Enrico IV di Pirandello: accade una specie di incidente di percorso per Antonio che scopre Emilio esangue sul letto e con i polsi tagliati. Si tratta in realtà di una messa in scena che avrebbe lo scopo di scuotere Antonio dal suo scetticismo e abituarlo ad una vita più responsabile. Lo stratagemma ha effetto ed Antonio si trasforma in un padre drammatico e violento, per portare a compimento una esasperata vendetta ed è bravo Biagio Izzo in questo cambiamento repentino di registro.

Come dovrebbe essere un padre?

Sul testo della commedia ci siamo già espressi. Per ciò che riguarda la messa in scena non ci è piaciuto l’uso del radiomicrofono da parte degli attori, per ottenere un effetto televisivo. Troppo sulle righe l’interpretazione, da cine panettone, di Biagio Izzo, dalla bella struttura fisica ed in perfetta forma; non giudicabile, se non per l’avvenenza, Yuliya Mayarchuck attrice di Tinto Brass in Tra(sgre)dire; simpatiche Rosa Miranda e Luana Pantaleo in ruoli fortemente caratterizzati; bravi attori, senza ombra di dubbio, Mario Porfirio, Domenico Aria e Arduino Speranza; bravissima Adele Pandolfi nel ruolo di una madre di stampo mitologico, capace di una severa immoralità… Gradevoli le musiche (ricordiamo un solo brano per la verità) di stampo partenopeo tradizional moderno. Scene e costumi adatti alla bisogna.

Regia di Vincenzo Salemme; Musiche di Antonio Boccia; Costumi di Francesca Romana Scudiero; Scene di Alessandro Chiti; disegno luci di Luigi Ascione. Al teatro Ambra Jovinelli

pietrodesantis

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