Candide di Leonard Bernstein

Candide di Leonard Bernstein

Leonard Bernstein

La vita è sogno, secondo Pedro Calderon de la Barca: il protagonista della sua opera, un profetico Sigismondo, risparmia il suo nemico poiché capisce che nella vita e nel sogno non bisogna rovinare la felicità dell’uomo, tanto essa è sfuggente e labile. La consolazione dolceamara a noi non sembra sufficiente per suscitare qualche entusiasmo e proviamo l’esigenza di un sogno ulteriore, già sognato da qualcun altro: che esso venga definito arte, scienza o fede non ha alcuna importanza. Credevano avesse importanza, invece, gli illuministi, che attribuivano solo alla scienza il diritto di suscitare entusiasmi.
Proprio il più famoso dei romanzi illuministi, Candide di Voltaire, dimostra la debolezza del presupposto. Candide è un giovane ingenuo che, imbevuto delle folli teorie di Pangloss, banalizzazione di un’ipotesi filosofica di Leibniz passata alla storia come la teoria del “migliore dei mondi possibili”, cade in incredibili e sfortunate disavventure, per nulla differenti da quelle patite dai suoi o dai nostri contemporanei, ma esageratamente numerose e concentrate: guerre, terremoti e maremoti, incendi, persecuzioni religiose, schiavitù, sifilide e quant’altro. Alla fine del percorso Candide esperimenta la saggezza: coltivare il proprio orticello, nutrirsi delle soddisfazioni possibili… e annegare nella frustrante banalità.
Ne deduciamo di dover abbandonare Voltaire per non cader vittime della cattiva coscienza: se “inventare i sogni” è un male, lo è altrettanto teorizzare un atteggiamento riduzionista – di rifiuto del sogno proprio o altrui –; né, spinti dall’esigenza del produttivismo esasperato, è lecito cercare di demonizzare tutti gli altri ideali evidenziandone le cattive applicazioni.
I Medesimi ideali non sono disponibili per tutti: se non è necessario girare il mondo perché si preferisce curare le rose coltivate sul terrazzino di casa, tuttavia non risulta corretto spargere sale sulle fantasie altrui – fatto che, oltre a tutto, lascia trasparire qualche sentimento di invidia –; ma soprattutto la bellezza dei fiori deve poter reggere un confronto!

Il pretesto dell’opera, cioè il libretto di Hugh Wheeler con testi di Richard Wilbur, Stephen Sondheim, John La Touche, Dorothy Parker, Lillian Hellman e Leonard Bernstein, era politico: nell’oscuro periodo del maccartismo, gli Stati Uniti vantavano di essere “il migliore dei mondi possibili” e affidavano il rigore di questo “sogno inventato” ad una sorta di inquisizione poliziesca, il cui compito era snidare comunisti e simpatizzanti allo scopo di eliminarli dalla vita politico-sociale, per preservare l’integrità morale del paese. L’intento del libretto e della musica mira a contrastare la rigidità di quella posizione, mettendone in ridicolo l’ottusa visione politica, che parla di guerre, sopraffazioni e schiavitù tutte “rigorosamente giuste” per la salvaguardia del migliore dei mondi possibili: gli Stati Uniti d’America. Molti ancora, per altro, in quello straordinario paese, sono ancora convinti di ciò.
Ma va anche riconosciuto che, sin dalla dichiarazione d’indipendenza del 1776, quello straordinario paese ha coltivato sempre una seconda anima, accogliente e solidale. Un fulgido esempio di apertura culturale ad ogni libero pensiero fu dato da una interessante figura di studioso sociale: Henry David Thoreau, teorizzatore della “disobbedienza civile”, ispiratore di Gandhi e del pensiero libertario. Questo personaggio – del quale invitiamo a leggere almeno la divertente opera “Walden, ovvero la vita nei boschi” (edizioni BUR) – rifiutò di pagare le tasse che il governo americano impose per finanziare la guerra imperialista contro il Messico (1846-1848) ed acquisire il controllo sulla California, preferendo piuttosto l’arresto e la prigione.

Pacificati con gli Stati Uniti, raccontiamo la realizzazione romana del Candide, con l’allestimento del Teatro San Carlo di Napoli per il quale il regista Lorenzo Mariani ha immaginato i movimenti scenici all’interno di uno studio televisivo utilizzando, con grande accortezza, immagini video proiettate su schermi, incastonati nel fondale, oppure sul velario trasparente calato davanti alla scena, mentre la bella e chiarissima voce di Adriana Asti, in costume di Voltaire, racconta le varie parti della trama non messe in musica.
Il sipario si apre su di una gradinata semicircolare in legno, che accoglie il folto coro ed entra Voltaire che si accomoda dinanzi ad un leggio trasparente e presenta i personaggi principali: Candide (Michael Spyres), Cunegonde (Jessica Pratt), Maximilian (Bruno Taddia), Pangloss (Derek Welton), Paquette (Elena Rossi) accompagnati dalla musica – un po’ come in Pierino ed il lupo, però senza una individuale caratterizzazione sonora – che vanno a sedere su cinque sgabelli posti sul proscenio, dinanzi alla scena rialzata di qualche gradino.
Tutte le azioni di massa si svolgono sulla scena mentre la gran parte delle arie viene cantata sul proscenio.
Fondamentale importanza, nello sviluppo dell’opera, assumono il personaggio della Old Lady (Jane Henschel) oltre al coro e al corpo di ballo: il coro è protagonista nello snodarsi del discorso musicale ma anche nelle azioni drammatiche di massa (guerra in Westfalia, terremoto e esecuzioni capitali in Lisbona).

La musica di Bernstein, soprattutto nel primo atto, ci sembra piuttosto monotona (forse per scelta compositiva) anche se l’orchestrazione è di altissimo livello nella ricerca di impasti sonori densi ed originali, ma le arie sono fiacche, prive di fantasia e seduttività. Il secondo atto è musicalmente più vivo e l’azione scenica ne risulta rinvigorita: le arie trovano melodie più distese; ci sembra armonicamente molto interessante l’ultima aria di Pangloss, “Millions of rubles and lire and franks” ed è accattivante il finale “We’re neither pure nor wise nor good” cantato prima a due voci (Candide e Cunegonde), poi a sei voci (tutti i protagonisti) e ripetuto infine con il sostegno del coro. Straordinari sono  i contributi del corpo di ballo e del coro stesso nel dare consistenza all’impianto drammatico.
Le voci degli interpreti sono tutte molto valide, però abbiamo avuto una preferenza per il baritono Derek Welton (Pangloss): tutti hanno dovuto, forse, faticare per emergere in alcuni momenti nel pieno dell’orchestra, fatto questo che chiama in causa l’autore (Bernstein) e il direttore d’orchestra (Wayne Marshall). In realtà quest’ultimo ci è sembrato molto valido: inserito dentro alla musica e all’altezza di ogni momento musicale e teatrale, partecipa anche direttamente al dialogo con Adriana Asti – Voltaire. Le intenzioni di Marshall – Bernstein sulla partitura ci sembra siano orientate a sviluppare un’azione corale che coinvolga tutti gli interpreti (solisti e coro) senza privilegiare una o poche voci rispetto alle altre: così al bravo tenore Michael Spyres, interprete del ruolo principale, non spettava la responsabilità di caratterizzare l’opera e nemmeno alla bella voce del soprano Jessica Pratt (Cunegonde) né alla simpatia del bravo mezzosoprano Jane Henschel (the Old Lady) o alla bravura ed avvenenza del soprano Elena Rossi (Paquette). Il bel lavoro d’insieme, coronato grazie alla sicura, presente e precisa invenzione registica di Lorenzo Mariani, ha richiesto più di un mese di prove, ma ha ripagato il forte investimento economico di un biglietto in platea con un risultato pienamente apprezzato.
I costumi ( di Giusi Giustino) scelti per connotare le differenti situazioni ambientali erano antichi-moderni in un’alternanza di buon gusto: gli inquisitori di Lisbona, inguainati in abiti di pelle nera, arrivavano sulle modernissime bighe a trazione magnetica, ma subito apparivano le corde per l’impiccagione ed i ballerini vestivano in saio di tela. Difficile rendere in poche parole l’articolatissimo alternarsi di scene e praticabili (realizzati da Nicola Rubertelli da pitture di Larry Rivers) e di immagini proiettate (di Massimo Iaquone e Luca Attili). Hanno fatto un ottimo lavoro  il Maestro del Coro Roberto Gabbiani ed il coreografo Seàn Curran.

Chissà, se Leonard Bernstein e collaboratori, si accorsero mai di aver proposto una parafrasi del Flauto magico?
(pietro de santis)

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