Il colibrì

Il colibrì

Non ho letto il romanzo di Veronesi l’estate in cui ha vinto il premio Strega, cioè nel 2020; l’ho letto invece ora, a distanza di due anni, stimolato dalla domanda di una persona che mi ha chiesto un parere. Questa persona ha visto anche il film di Francesca Archibugi. Confesso di aver provato più interesse per quella domanda, che per il premio Strega: mi ha indotto a leggere l’importante best seller, edito dalla Nave di Teseo. Rimango affascinato dai vincitori dei premi letterari, che stimo a prescindere; pertanto, mi affretto subito ad affermare la qualità della scrittura e dell’impostazione, per rivedere il giudizio a fine lettura, cercando un significato oltre le parole: sarà deformazione professionale.

Il libro di Sandro Veronesi è scritto bene: una struttura agile e intelligente basata sui flashback, sulle contaminazioni epistolari, tra posta d’antan e webmail, e sul dialogo telefonico: dopo averlo digerito, ho iniziato a riflettere sul senso della storia e le intenzioni dell’autore.

Per me si tratta di un libro sulla morte – oppure sulla vita del protagonista, Marco Carrera – che si sviluppa in una cronaca-verità, i cui riferimenti dettagliati a luoghi reali e avvenimenti storico-sociali quasi reali, rendono surreale.

In questo racconto dedicato alla morte sembra che l’inconscio non esista; ovvero, se esiste, è appannaggio della componente femminile del mondo, perciò un surrogato del pene: chissà se Freud ci abbia mai riflettuto… intanto, uno dei comprimari e alter ego del protagonista oppure dell’autore è uno psichiatra psicoanalista che si propone come il grillo parlante di Pinocchio: si tratta del dott. Carradori, che ha in trattamento la moglie di lui, Marina. A rifletterci, questo psicoanalista e psichiatra sembra più che mai un investigatore privato: conosce tutta la verità e, conoscendola troppo bene, ad un certo punto preferisce smetterla con l’attività psicoanalitica, trattamento notoriamente riservato ai ceti medio alti, per dedicarsi alla psicologia dell’emergenza che, invece, notoriamente si protende verso i poveri e i derelitti del mondo. Veronesi immagina questo psichiatra psicoanalista consapevole della propria cattiva coscienza la quale, per un principio morale piuttosto bizzarro, si trasforma in coscienza buona, prendenso ispirazione forse dai famosi risanamenti delle aziende in crisi: separare la bed company (leggasi psicoterapia) dalla good company (leggasi psicologia dell’emergenza). In virtù dell’espediente le good company del dottor Carradori e di Marco Carrera sono salve e le bed company vengono buttate via (con tutti quelli che vi stanno aggrappati).

Il fatto che l’inconscio possa rappresentare un risarcimento all’assenza del pene – e quindi interessi principalmente le donne e qualche maschio non ben realizzato – è attestato nel romanzo dalla sequela degli psicoanalisti che aderiscono al gioco borghese della cura al femminile: oltre a Carradori, terapeuta della moglie Marina, ne elenca uno per Letizia, la madre; un’altra per Luisa, l’amante/non amante; un’altra/altro per Adele, la figlia… non ricordo più la sorella Irene, descritta in maniera abbastanza cazzuta e disperata, senza particolari motivazioni, ma a rigor di logica, le attribuisco una psichiatra.

La nipotina Miraijin, figlia di Adele, non ha bisogno dello psicoanalista perché è una sportiva super sportiva, ha nome di maschio – uomo del futuro – ed è bellissima con il suo incarnato un po’ scuro, i lineamenti un po’ cinesi, gli occhi azzurri finlandesi. Perciò non manca di nulla pur non avendo il pene che, in fondo in fondo, al giorno d’oggi mantiene solo un valore simbolico.

I morti sono, in ordine di sparizione: la sorella Irene, suicida; la mamma Letizia, tumore; il padre Probo, tumore; la figlia Adele, precipizio; lo stesso protagonista Marco Carrera, proiettato in ipotesi futuristica, per tumore nel 2030… con un pizzico di cinismo, potrei proporre la statistica – sbrigativa ma coerente – che quattro persone su cinque, in Italia, sono destinate a morire di tumore.

Altri personaggi agitano la vita di Marco Carrera: il fratello Giacomo, in perpetua latitanza; l’amante non amante Luisa, in perpetua latitanza; l’ex moglie Marina, in latitanza forzata in quanto psicopatica ricoverata; la figlia Adele, formalmente avvinta al padre come l’edera, ma pure abbastanza latitante; la nipotina Miraijin, presente ma assorta nel suo mondo; il compagno di giovinezza e di dipendenze dal gioco d’azzardo Duccio, detto l’Innominabile in quanto celebrato portajella (ad imitazione di Rosario Chiarchiaro protagonista di La patente di Luigi Pirandello) oltre all’onnisciente dott. Carradori.

Siccome Marco Carradori, bambino bassino e magrolino, ma fornito di un’energia insuperabile, per questa sua caratteristica era definito il colibrì da Letizia cuor di mamma; successivamente, grazie una cura sperimentale e meravigliosa – che con ogni probabilità lo porta cinquantacinque anni dopo a morire di cancro – diventa alto un metro e ottantuno. Però il nomignolo gli rimane appiccicato lo stesso: a quel punto, visto che il danno è fatto, l’appellativo colibrì diviene simbolico di colui che fa una fatica immane per rimanere fermo, come l’uccellino immobile in volo, con il lungo beccuccio infilato dentro ad un frutto.

Siccome Marco Carradori, detto il colibrì, non possiede l’inconscio pensa non lo possiedano nemmeno gli altri: perciò, si beve tranquillamente tutto quello che gli dicono e non crede a ciò che non vede, ad esclusione della jettatura emanata da Duccio l’Innominabile.

All’età di ventuno anni Marco s’innamora di Luisa, bambina di tredici anni però già ben sviluppata: confermo che questo può accadere, soprattutto ai maschi po’ ingenui e cocchi di mamma. Da quel momento iniziano le stragi: Marco dovrebbe partire in aereo insieme con lo jettatore; ma Duccio ha paura di volare e, prima del decollo, in piena crisi di panico profetizza che moriranno tutti e urla come un ossesso così da indurre l’equipaggio a lasciarli a terra. L’areo decolla e naturalmente precipita in mare, senza sopravvissuti.

L’estate di due anni dopo Marco invita la quindicenne Luisa ad uscire per dichiararsi ed amoreggiare con lei, a dispetto della gelosia del fratello Giacomo ugualmente innamorato della ragazzina; però, siccome Giacomo non glielo ha esplicitato – e l’inconscio non esiste – Marco non lo sa. La medesima sera i genitori vanno a cena fuori; Giacomo resta a casa e non ha fame; la sorella Irene – più che ventenne e forse anoressica, ma non è specificato – avendo invece una fame da lupi non mangia perché nessuno le ha preparato un piatto di pasta. Perciò, decide di suicidarsi. Lo fa in una bellissima e suggestiva località nominata i Mulinelli: lei sulla sabbia, morta affogata; Marco e Luisa sulla sabbia un po’ più in là, ad amoreggiare; i genitori Probo e Letizia, alcuni chilometri più a sud, sulla sabbia a consumare l’ultimo amplesso della loro carriera matrimoniale. Il protagonista, oppure l’autore, suppone che se, invece di pensare al sesso, qualcuno la avesse preparato un piatto di pasta, Irene non avrebbe scelto di suicidarsi, almeno per quella sera.

A causa della disgrazia rimangono tutti scioccati, e questo è giusto: Marco accusa il fratello di non avere vegliato sulla sorella, ma questo lo si scopre molto avanti nel libro. Siccome l’inconscio non esiste, Marco non consuma il più il rapporto sessuale con Luisa e per questo va in fissa: per inciso la fissa gli dura quarantasette anni circa, fino alla morte. Luisa va a vivere a Parigi con la famiglia, si sposa, ha figli, divorzia, cambia psicoanalisti eccetera; ma sempre il rapporto tra i due rimane intatto: in procinto di essere consumato senza consumarsi mai. In questo si annida il senso del suo essere colibrì: fare tanta fatica per niente. Povero colibrì, così male inteso…

Nonostante la fissa, Marco si innamora di un’altra: si chiama Marina, fa la hostess ed è bugiarda come tutte le ragazze dell’est che sono belle. Lei ha finto di essere scampata al disastro aereo di cui si è detto e lui se ne innamora per identificazione (e perché è bella): si sposano, hanno una figlia, ma lei lo tradisce in continuazione. Ovviamente, Marina va dallo psicoanalista, il già detto Carradori. Siccome l’inconscio non esiste, Marco non capisce di essere tradito, perché la moglie non glielo comunica; ella, di fronte all’indifferenza del marito, diviene gelosa e indaga su di lui. Scopre le lettere di Luisa e decide di rovinarlo, magari anche ucciderlo. La cosa non riesce perché lo psicoanalista, che capisce tutto perché in realtà non cura ma è un investigatore, avvisa il marito: proprio da questo episodio si srotola la trama saltellante del libro alla quale, banalmente, cerco di attribuire un orientamento cronologico. Marina, scornata ed incinta dell’amante, si trasferisce in Germania con quello, che è una brava persona: dopo la nascita di Greta, finisce in una clinica psichiatrica senza speranze di guarigione, secondo l’onnisciente Carradori che sembra riciclare la teoria antica della malattia mentale come perversione dell’anima.

Anche Giacomo si trasferisce in America, si sposa ed ha figli. Marco resta solo ma, dopo qualche anno, la figlia Adele decide di andare a vivere con lui. Muore Letizia, muore Probo e per un breve momento si riuniscono i personaggi principali della vicenda che sono Marco, Giacomo e Luisa, ma poi si separano di nuovo per difetto di comunicazione. Ma, in un eccesso di comunicazione, Marco decide di interrompere ogni rapporto con Luisa: siccome l’inconscio non esiste, le rimprovera di avergli comunicato solo trent’anni dopo che anche Giacomo era innamorato di lei… si accorge, perciò di aver giudicato male il fratello. Bizzarro questo pensar male: sarebbe a dire che il disinteresse di Giacomo nei confronti di Irene, che andava a suicidarsi, fosse legittimato dalla gelosia… quando l’inconscio non esiste è un bel problema.

Comunque, a questo punto la storia diviene vorticsa: Adele, bella e sportiva, rimane incinta non si sa di chi; con il senno di poi, e viste le caratteristiche somatiche della bambina Miraijin, immaginata maschio, sembra una gravidanza miracolosa. L’assenza del padre naturale e la scelta del nonno/padre putativo – suggerita dalla psiconalista – puntano verso un misticismo laico, che risulta confermato dall’epilogo: l’incidente mortale di Adele; la vita simbiotica di nonno e nipote; l’ennesima presa di coscienza, tutta frutto di fatica intellettiva e fortunate coincidenze, portano alla conversione di Marco, alla redenzione di Duccio l’Innominabile – la cui jettatura non riesce a prevalere sulla nipotina portebonheur – e infine alla morte/spettacolo per eutanasia immaginata nel 2030. A questo spettacolo della morte sono presenti tutti i personaggi ancora vivi: Miraijin con gli amici amanti; il prof. Carradori; la ex moglie Marina; Greta, sorella di Adele; Giacomo e Luisa che, finalmente lo bacia mettendogli la lingua in bocca… anche se ironizzo per l’eccessiva spettacolarizzazione della morte – per assenza dell’inconscio – riconosco quanto sia difficile rendere umana la fine della vita

Certo, l’intelligenza della struttura costruita da Veronesi rende la lettura più affascinante di quanto sia la mia descrizione ma, credo, di non averne stravolto il contenuto suggerendo una cronologia. È possibile che l’autore abbia volutamente delineato un protagonista a bidimensionale, piatto; forse si tratta di una critica al mondo borghese, all’apparenza così pieno di certezze. Comunque non mi sembrano particolarmente espressivi nemmeno gli altri personaggi… forse un po’ Marina, la moglie pazza, a causa di un inconscio che urla.

Quella di Marco sembra una vita bonificata, priva di mistero, tutta aristotelismo e buon pensiero borghese. Ma ciò che mi sorprende, oltre l’idea piuttosto interessante dell’inconscio surrogato del pene, è il maschilismo inconsapevole dell’autore: il ruolo che riserva alla donna, angelica ispiratrice oppure pazza isterica, rimane sempre quello di oggetto, una volta ammirato, una volta respinto.

 

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