Tiro al piccione

Tiro al piccione

“Prima di venire inserito nelle antologie, uno scrittore deve essere mortissimo” così diceva la grande Maria Luisa Spaziani, amica per un tempo breve. Mortissimo significa scomparso da un sufficiente numero di anni, in modo che il ricordo non possa nuocere a quanti siano rimasti, per le polemiche di parenti e affini o per il rinvenimento improvviso di scritti segreti. “Poi – aggiungeva – bisogna che qualcuno se ne innamori, cioè comprenda la sua opera, l’apprezzi, la decodifichi, nei termini culturali, sociali e umani”.

È quanto sta accadendo all’opera di Giose Rimanelli? Personalmente ne conosco un unico frammento – seppure il più noto –, cioè il famoso Tiro al piccione, uno dei più tragici, violenti, sofferti romanzi del Novecento. Torna in libreria, finalmente, dopo le distorsioni politiche e gli ostracismi culturali, con la dimensione di opera importante per la letteratura italiana del dopoguerra. Personalmente ho le idee confuse, non sulla qualità dell’opera, ma sulla letteratura del primo dopoguerra, perché resto sbigottito a riguardo della parola guerra: la questione, per me, non dipende dal lato della barricata, perché resto ugualmente sbigottito nei confronti del libro antiparallelo Il partigiano Jonny di Beppe Fenoglio.

Per me la guerra è un argomento osceno: non sopporto la guerra in Ucraina, né dalla parte di chi attacca e nemmeno dalla parte di chi difende; non credo sia logico o sensato uccidere per nessun motivo. Ritengo osceno imbracciare un fucile e prendere la mira; non so capire l’importanza di difendere qualcosa a prezzo della vita di qualcuno che non sia io. Troverò osceno qualsiasi libro che ci vorrà raccontare questa guerra in Ucraina, come trovo oscene le spiegazioni degli esperti, che si infilano tra una partita di calcio ed un varietà.  Ma ciò esula dagli argomenti letterari e Rimanelli va letto per intero, come pure Fenoglio o Levi o Berto.

Nel 1943, il diciottenne Marco abbandona il seminario, a causa dell’intensità dei desideri sessuali, e torna a casa, nel paesino molisano. La guerra è passata, travolgendo tutto come l’uragano; lasciando la povertà accompagnata dallo smarrimento e dal sentimento inutile del quotidiano secolare. I camion tedeschi risalgono la penisola, in fuga: Marco vuole fuggire e scivola dentro a una guerra drammatica, fratricida. Si arruola nella Rsi e ottiene salva la vita. “La crudeltà e la violenza della trincea, il disprezzo degli uomini, l’insensatezza dei combattimenti, persino l’incontro con il sergente Elia, strenuo sostenitore della difesa della patria, segnano il suo fermo rifiuto della guerra”. Fugge quindi dal treno della prigionia e ritorna al suo paese, prigioniero ancora una volta. La ferocia del sangue, la fedeltà agli ideali, persino la libertà non possono coincidere con la brutalità delle armi. Tiro al piccione è un grande romanzo di guerra come possono esserlo Addio alle armi e Il partigiano Johnny di Fenoglio. Scrive Anna Maria Milone che l’importanza di proporne oggi una nuova lettura «sta nel valore che hanno l’indipendenza del pensiero e la libertà dai luoghi comuni»

Nella mente si confondono due trame: Tiro al piccione e Il partigiano Johnny hanno in comune la lotta degli uni contro gli altri. Il secondo dei due è osannato e celebrato dal lato dei vincitori (comunque perdenti…); l’altro, imbarazzante, è dimenticato. L’incapacità critica mi induce a calpestare un palcoscenico diverso, sul quale mi accorgo di amare il personaggio Marco Laudato – a me più famigliare dell’altro protagonista – perché figlio di una terra povera. Sono nipote di una terra povera, l’Abruzzo, e conservo il ricordo di uno dei suoi figli, salito sui camion dei militari italiani – ubriachi dell’ideologia fascista povera – inviati a conquistare la Russia. Anche contro di loro venne organizzato un tiro al piccione; anche loro tornarono dalla prigionia con la vergogna di essere stati fascisti – i fascisti sconfitti – sebbene assenti dalle patrie terre per buoni tre anni e anche nei loro confronti ci fu l’ostracismo riservato ai poveri. Quel figlio dell’Abruzzo, così tanto simile al figlio del Molise, non sapeva raccontare nemmeno ai propri figli, o forse non poteva. Quel figlio d’Abruzzo, che era stato a studiare in seminario, controvoglia – soprattutto per i tre pasti al giorno – da quel seminario era uscito per salire su di un camion militare, tre anni prima dell’altro senza la capacità di esprimere la propria protesta garbata e priva di retorica.

Per questo va letto Rimanelli; nella sua voce, forse, è possibile ascoltare anche altre voci, scomparse nel silenzio del tempo, contro la guerra sempre.

 

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