La femmina nuda

La femmina nuda

Parlare di un libro, La femmina nuda nello specifico, spinge a formulare un giudizio che corrisponde innanzitutto ad un pre-giudizio espresso nella forma minima: mi è piaciuto oppure non mi piace. Può accadere di voler rileggere e formulare un giudizio migliore in termini qualitativi o di apprezzamento, non necessariamente di gradimento; ciò accade sicuramente con i classici.

Intendendo parlare, con qualche competenza in più, di un libro nuovo, è opportuno conoscere qualcosa dell’autore e delle opere precedenti: il gradimento del libro può rimanere identico oppure cambiare, ma senza dubbio ne migliora l’apprezzamento.

Elena Stancanelli è nata a Firenze, da padre palermitano: affermazione densa, vista la concentrazione di riferimenti espressi in più interviste: alla fiera del libro di Milano nel 2016 (sono una donna del sud, mio padre è palermitano); alla presentazione del libro Mamma o non mamma del 2009 (notare il gioco di parole con m’ama non m’ama) durante la quale confronta il rapporto tra padre e figlia, a suo dire sempre migliore della problematica competitiva tra madre e figlia; oppure sottolinea la drammaticità delle famiglie separate, nelle quali i padri vengono espulsi e costretti in situazioni di indigenza.

Fiorentina di nascita, ha assorbito in pieno l’atmosfera vitale della città d’origine e l’ha restituita nel libro Firenze da piccola (2006) nel quale i ricordi si estendono nello spazio e nel tempo: Piazzale Michelangelo e il David, le Cascine, il concerto di Lou Reed e le puttane, diquaddarno e dilàddarno, il ventre caldo della biblioteca Marucelliana e i Canti orfici di Campana, il caffè delle Giubbe Rosse e Tondelli, il Mac Donald a due passi dalla chiesa di Orsanmichele, Footlocker in pieno centro storico, il tratto di Lungarno appaltato all’ambasciata americana. Vivere a Firenze è un’arte complicata, mescolare quotidiano ed eccezionale, giorno dopo giorno. L’ostinazione proverbiale pretende di conservare luoghi e vocaboli “Poi ci si lamenta se la gente pensa che i fiorentini sono un po’ stronzi”. Manganelli diceva che Firenze è sopportabile solo per chi ci è nato, per gli altri è impossibile, intossicata di capolavori, irrespirabile. La Stancanelli conclude che «noi fiorentini siamo portatori di anticorpi che permettono di sopravvivere alla nevrosi della bellezza assoluta. Non siamo stronzi, siamo diversi».

Elena Stancanelli, laureata in Lettere moderne, si è trasferita a Roma per frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica e tentare la carriera di attrice per un paio di anni. L’amore per il teatro – e per Shakespeare in particolare – è espresso nel libro Le attrici (2001): è un libro sul teatro, che si propone come una specie di reality, con un provino decisivo in un’isola che nasconde un mistero. Due ragazze concorrono ad una sola parte da assegnare. La protagonista ha scelto il nome d’arte Ariel perché sogna di volare, come lo spiritello di Shakespeare nella Tempesta, nel cielo del teatro. Al provino incontra Tina, attrice di cinema, strampalata, arruffona, ma soprattutto bellissima. Le due ragazze rimangono tre giorni nella casa sull’isola: un mondo in cui le regole non valgono più. Si tratta di un romanzo di formazione, tra le cui pagine si nasconde una storia d’amore. Propone la teoria che il talento sia il talismano che ognuno può opporre alla malinconia e alla paura.

Nel periodo romano, cercando tra teatro e letteratura, durante le lunghe e animate conversazioni con amiche ed amici, si trova a domandare (aneddoto ascoltato da un’intervista) a Marco Lodoli se possa far l’attrice: le suggerisce piuttosto di scrivere.

L’intenzione doveva essere comunque matura perché Elena consegna nelle mani dell’amico uno scritto. Dopo qualche mese, contattata dall’Einaudi (non mi prendere per il culo, risponde incredula) pubblica Benzina (1998): si tratta dell’avventura, che si esaurisce nell’arco di un giorno e di una notte, di Lenni e Stella complici e amanti che vagano nella città, convinte dell’amore assoluto. Benzina è la fiaba sporca dell’età giovanile: ribellione, disordine sentimentale, crimine, desiderio di fuga. Il piccolo bar di una stazione di una stazione di benzina è l’isola felice di Lenni e Stella.

La madre di Lenni arriva a Roma per riprendersi la figlia e viene uccisa dalle due ragazze, con brutalità. La storia è raccontata a tre voci: un balletto d’anime in cui risuona, forse, l’eco di Rashamon (racconto di Akutagawa Ryousuke portato sullo schermo da Akira Kurosawa) che ruota intorno al tentativo delle amanti di occultare il cadavere; anche la defunta madre, angelo un po’ goffo, ragiona su quello che sta accadendo. Benzina usa i modelli del romanzo, del cinema on the road e delle «cattive ragazze», una corsa a precipizio nello spazio e nel tempo, verso l’assoluto irraggiungibile.

L’autrice vince il Premio Giuseppe Berto; da Benzina e Le attrici, la regista Monica Stambrini trae il film Benzina (2001).

Fatto il proprio ingresso nell’attività letteraria, Elena si propone con racconti su riviste (Max, Amica, Gulliver, Tutte Storie, Cosmopolitan, Marie Claire) e su quotidiani nazionali (Il secolo XIX, Corriere della Sera); è collaboratrice stabile del quotidiano La Repubblica; scrive anche su il Manifesto e l’Unità. Ha fondato l’associazione dei Piccoli Maestri.

Pare, a me, che Elena abbia legami forti con tre città: Palermo, a cui credo sia legata per ricordi d’infanzia; Firenze, per l’infanzia e la giovinezza fino al completamento degli studi; Roma, sua città d’elezione (a me Elena sembrava romana, prima di leggere le note biografiche).

Alla città di Roma ha dedicato A immaginare una vita ce ne vuole un’altra (2007), intenzionata a scoprire cosa sia diventata negli ultimi dieci anni: una porta spalancata su uno scenario meridionale, prezioso e sgangherato, o la prima stazione verso il nuovo ordine europeo. Si smarrisce nella città eterna, scoprendone la vitalità malinconica frutto di una secolare gestione allegramente provvisoria. È un racconto a più voci in cui convivono baraccopoli e centri commerciali, protagonisti della scena artistica e teenager il cui disimpegno si dirige verso inaspettati apici di sensualità; politici più o meno illuminati, prostitute, calciatori, migranti, zingari, picchiatori di destra e di sinistra, luoghi nascosti e luoghi incomprensibilmente graziati dal successo. il viaggio attraversa la memoria, l’arte, le fantasie ed i luoghi comuni, ma soprattutto affronta a viso aperto la vita disegnando un mosaico di narrazioni che fa, dei tasselli mancanti, il proprio punto di forza: non la totalità delle esperienze, ma la totalizzante folgorazione dell’esperienza.

Gli ultimi tre lavori (a me) sembrano costituire una trilogia anche se, di fatto, solo gli ultimi due risultano collegati in modo esplicito.

Mamma o non Mamma è un dialogo scritto con Carola Susani (Feltrinelli, Milano, 2009) sul tema della maternità: “Ele, sono le due e mezza e non riesco a dormire. Un po’ pare che sia normale negli ultimi mesi di gravidanza, per l’ingombro, perché è difficile trovare la posizione. Sul fianco destro, mi dicono. Un po’ è l’eczema che dà un fastidio al limite della sopportazione. È una dermatite intelligente, se io mi agito, esplode, non mi dà pace, mi costringe a uscire dal letto, a tornare in movimento, a lavorare.”

“Cara Carola, sono le sei di mattina dello stesso giorno e io dormo. Nel mio letto calduccio, accanto a un uomo alto, magro, con la pelle liscia come quella di una donna… Abbiamo tempo. Siamo soli e con pochissimi impegni. Lui pensa che il mio lavoro consista nel giocare col computer, e forse non ha torto. Non capisce bene perché la mattina mi debba alzare, quali siano i miei doveri.” Carola ed Elena, amiche e scrittrici, si scambiano lettere di riflessione, accusa ed affetto prima e dopo la nascita di Nina, secondogenita di Carola. Elena esprime il proprio stupore, anzi la propria costernazione per uno stato d’animo che non comprende; ne nasce un dibattito sulla femminilità e sulla maternità che per Carola, come per la maggior parte delle donne (in buona ed in cattiva coscienza) appare binomio appagante, mentre per Elena rappresenta il generatore di mediocrità, di infelicità, di regressione. La maternità non è scontata, tanto meno la maternità felice. Quanto è possibile starne fuori? C’è un prezzo da pagare? Il vuoto e il pieno del mondo passano attraverso un figlio?

Un uomo giusto, (2011) ha due protagonisti: Anna, architetto, e Davide, meccanico. È la descrizione di due caratteri che potrebbero rappresentare gli archetipi del femminile e del maschile. “La gente che sta a casa non gli piace. Quelli che lavorano in casa, come me. Un po’ perché crede che stando seduti non si possa davvero lavorare, un po’ è la diffidenza per chi sta rinchiuso. Le mura sono trappole, galere. Secondo lui solo quello che avviene di corsa e combattendo ha senso. La riflessione non esiste, esistono brevissime pause per la manutenzione, perché le ferite cicatrizzino, il dolore passi. Se ti fermi, o ti riposi, è solo perché ti sei fatto male, o sei morto.” Davide non sa niente: non conosce la storia più elementare e neppure la geografia, non ha idea di chi siano gli uomini a cavallo nei monumenti di Roma, non conosce neppure i nomi delle strade. La sua vita è un garbuglio, l’unico modo per mettere ordine è la successione temporale: prima questo poi quello, costruendo impalcature complicatissime e fragili di eventi e personaggi del passato, spesso senza nome. Eppure i suoi occhi dicono che è intelligente, il suo modo di stare al mondo e di abitare lo spazio, il corpo grande e sottile e bellissimo, soprattutto bellissimo. Anna è architetto e vive nel quartiere San Saba. Il suo studio è un tavolo da disegno, più che un luogo è un’idea, una percezione dello scorrere del tempo; Anna, imprigionata in una rete di piccoli rituali che la isolano e la proteggono. “Prima di conoscere Davide, non avevo mai pensato così tanto alle parole. Le consideravo una specie di tessuto connettivo del mondo. Le parole per me tenevano tutto insieme, e senza le parole non c’era niente. Le cose, pensavo, sono i loro nomi.” Per Davide le parole sono nemiche. Le cose sono innominate e silenziose, come dinosauri che brucano indisturbati. Davide che non sa niente è capace di aggiustare quello che la gente come Anna butterebbe via; è vanitoso e gira in la maglietta, le dita sporche di grasso. La loro storia è l’incontro tra due solitudini apparentemente opposte.

La femmina nuda, (2016) ancora Anna e Davide cinque anni dopo (anche l’uscita dei due libri avviene a cinque anni di distanza). La storia d’amore volge ormai all’epilogo. Anna sembra soddisfatta della propria vita, ma di colpo tutto crolla in una palude di tradimenti, bugie, ricatti.

Si tratta di una confessione sotto forma di lettera fatta all’amica del cuore, Valentina, un anno dopo la ‘catastrofe’. Anna si è trasformata in un’isterica: ha smesso di dormire e mangiare; ha fumato e si ubriacata ogni sera per riuscire ad addormentarsi. Ha frugato nel telefonino di lui, nelle chat, sui social, senza sapere cosa stesse cercando, prigioniera del regno dell’idiozia senza riuscire a parlare con nessuno.

La figura di questa Anna è di nuovo rappresentativa di un aspetto del femminile, di una identità strutturata nell’immaginarsi unica, condizione che sfocia nell’ossessione e nella morbosità.

L’avversario, ma anche il polo di attrazione per Anna, non è Davide ma l’altra donna, indicata nel racconto come cane perché possiede un bastardino cui ha dato il nome “cane”, appunto. La domanda su cos’abbia di speciale quella donna che lei non possieda diviene la sua ossessione: l’essenza di cane sembra solo corporea, capace di risorse intellettive limitate alla successione stimolo-risposta; tuttavia è capace di tessere una tela fatta di sensualità che assorbe inevitabilmente l’interesse maschile o femminile. Anna si trova a studiarne l’anatomia, osservando la foto dell’organo genitale depilato, che cane ha invito a Davide.

Se Davide rappresenta il prototipo del maschio inconsapevole, facilmente seducibile e prevedibile, l’aspirazione all’unicità della protagonista non la salva dall’inevitabile conclusione: l’unica cosa su cui possiamo contare è il corpo il quale, però, denuncia la nostra reciproca somiglianza. Volendo condensare in una sintesi essenziale, la vicenda tratta del tentativo di distruggere una “femmina nuda” allo scopo di deprezzare il “maschio nudo” ma, inevitabilmente, giunge ad affrontare il discorso – sempre equivocato – dell’omosessualità femminile in particolare e della sessualità in generale. Il romanzo è entrato nella cinquina di finalisti al premio Strega del 2017.

Il titolo del libro è stato suggerito da Emma Dante; il pregio, riconosciutogli da Natalia Aspesi, è parlare di quella cosa di cui si parla troppo poco (cioè della fica). A me sembra evidente una doppia narrazione: della malattia e dell’osservazione della malattia, dalla quale la protagonista dice di guarire un po’ troppo spesso per essere vero.

Suscitano (a me) un certo interesse due aspetti: la condizione di delirio che, attraversando gesti spinti all’eccesso ricalca tuttavia la quotidianità delle relazioni femmina-maschio; e lo studio di Facebook e dei social networks, in particolare per quanto attiene alle immagini pornografiche. Entrambi gli argomenti sembrano il risultato di una ricerca sul campo.

La scrittura è snella e veloce, gradevole, con il limite di uno spessore esile, a dispetto di una struttura di fondo particolarmente interessante; possibile conseguenza della scelta di rifiutare lo psicologico (meglio un paio di scarpe della psicoanalisi) per attenersi rigorosamente a ciò che è tangibile. (pietrodesantis)

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