I Was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky

I Was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky

Song play in due atti  Musica di John Adams – Libretto di June Jordan

Almeno in un’ipotesi teorica, chiunque conosca la musica ed abbia qualche nozione di composizione potrebbe scrivere un’opera, persino con qualche opportunità di apprezzamento o di successo. Lo dico con ironia ma, anche, con una certa convinzione. Si fanno film bellissimi, ma i film mediocri vengono comunque prodotti e proiettati; si scrivono libri meravigliosi, ma libri scadenti vengono comunque pubblicati e venduti e, nel limite delle cose, essi possono persino contenere briciole di poesia, che trapelano tra materiali di seconda scelta, così come – esperienza insegna – accade con le piccole scoperte preziose nei mercatini popolari.

In un quartiere povero di Los Angeles, le vite di sette giovani si intrecciano: Dewain, un ragazzo nero, viene arrestato da un poliziotto bianco (Mike) per aver rubato due bottiglie di birra. Dewain stava andando dalla fidanzata Consuelo, rifugiata politica salvadoregna senza documenti, che è anche la madre di suo figlio. In caso di condanna, Dewain dovrebbe scontare una dura pena, essendo al terzo arresto in flagranza di reato. L’arresto viene registrato e trasmesso nel notiziario di una tv locale, condotto dalla giornalista Tiffany. Costei è attratta da Mike, con il quale ha già un’intesa professionale, ma la sua passione non viene ricambiata. David, un carismatico predicatore locale – nero – corteggia Leila, attivista nera della comunità; ma è anche sessualmente attratto da ogni individuo femminile normalmente dotato. Rick, difensore d’ufficio di Dewain, fa un accorato appello in tribunale per il rilascio del suo assistito. Un terremoto colpisce la città e il momento drammatico innesca una catena di riflessioni e dichiarazioni tra tutti i protagonisti. David si rende conto del proprio amore per Leila; Tiffany accusa Mike di essere gay (in quanto non prova il desiderio di sedurla) e rivolge la sua attenzione a Rick, che la corteggia da tempo; Consuelo vuole convincere Dewain a fuggire insieme in El Salvador sulla base del fatto che “questa città è dura con gli immigrati ed i neri”, ma egli decide di rimanere: vuole imparare a comprendere il proprio mondo per essere artefice della propria vita.

L’idea retorica espressa dal libretto – che, come la stragrande maggioranza dei libretti d’opera, banalizza ogni valore – è interamente resa nel titolo: “Guardavo il soffitto e poi ho visto il cielo”. La frase indubbiamente suggestiona, tant’è che mi ha attratto unita con l’immagine a corredo: un cielo azzurro con qualche nube bianca; ma riflettendo in maniera disincantata – e avendo assistito allo spettacolo – suona anche un po’ mistificante. Indubbiamente, per June Jordan autrice del libretto, essa esprime il concetto cardine e il compositore John Adams ha costruito su di essa il motivo musicale che caratterizza l’intera opera: l’aria è cantata da tutti i protagonisti all’inizio del primo atto ed alla conclusione del Song Play: “I was looking at the Cieling and then I saw the Sky”. All’inizio manifesta la speranza, alla fine la convinzione: vivranno tutti (in)felici e contenti.

Nell’opera, la città di Los Angeles assurge a simbolo della contraddizione americana: ricchezza ed emarginazione si confrontano e divaricano due mondi, nei quali i sentimenti più forti – l’amore ed il senso di giustizia – scavano un solco tra ricchi e poveri, bianchi e neri. L’amore non è uguale per tutti come non lo è la giustizia, ma non soltanto più per questione di pelle: i poveri (ispanici, italiani, ebrei, polacchi etc.) sono equiparati ai neri. Il valore qualificante è il reddito.

Il ricorso al dramma del terremoto è tanto simbolico quanto superfluo: sebbene esso voglia lasciar riflettere sul crollo di una società avida ed invidiosa, tuttavia ci è sembra stucchevole il ricorso all’espediente drammatico per proporre alcune riflessioni quanto mai semplici e retoriche: il poliziotto è gay in quanto non prova eccitazione di fronte ad una ragazza arrivista e manipolatrice; il reverendo nero dichiara il proprio amore perché il potente intervento di Dio – leggasi terremoto –  lo ha atterrito; la crisi esistenziale di Dewain si manifesta come reazione alla proposta di una vita di stenti e di pericoli in El Salvador.

Dinanzi ad un simile tsunami di retorica, abbiamo provato un iniziale desiderio di trarci indietro, soprattutto durante le prime 20 battute dell’ouverture: un brano minimalista – alla Philip Glass, per intendere – che sembra voler ribadire, per due ore e trentacinque minuti, le stesse note negli stessi intervalli, una volta ascendenti e la successiva discendenti: fortunatamente l’orizzonte si è ampliato e si è intravisto uno “spiraglio di cielo”. Alla musica minimalista si sovrappongono e si alternano e sostituiscono il jazz, il blues, il rock. In particolare, molto interessante e avvincente ci è sembrata l’introduzione musicale al secondo atto: una sorta di poema rock, cui abbiamo associato nel ricordo gli antichi carismatici Led Zeppelin.

Nessuna particolare aria possiede la forza persuasiva di restare in mente, se non la pluri-ripetuta “I was looking…”, una sorta di cantilena non brutta, soprattutto perché intonata a più voci con ottima vocalità. Interessante il tessuto armonico dell’opera, costruito per una compagine orchestrale quasi da concerto rock: due chitarre elettriche, tre tastiere elettroniche, un pianoforte a coda, due sax, un impianto di percussioni con decine di strumenti, un contrabbasso acustico ed un basso elettrico.

Decisamente bravi gli interpreti: Daniel Keeling (Dewain, baritono); Jeanine De Bique (Consuelo, mezzosoprano); Joël O’Cangha (David, tenore); Janinah Burnett (Leila, soprano); Grant Doyle (Mike, basso-baritono); Patrick Jeremy (Rick, tenore); Wallis Giunta (Tiffany, soprano) tutti giovani ed in buona forma fisica.

Bisogna dar atto a Giorgio Barberio Corsetti di avere eseguito una valida regia e, insieme a Massimo Tronchetti, un’interessante scenografia – anche in questo caso, secondo il suo stile, formata da praticabili mobili e componibili – arricchita adeguatamente dai video di Igor Renzetti e dalle luci di Marco Giusti. Abilissimo il sound designer Mark Grey che, effettivamente, ha disegnato il suono amplificato ottenendo una buona risposta dagli spazi del palcoscenico e della sala. Molto “easy and cool” il direttore   Alexander Briger.   L’Orchestra era del Teatro dell’Opera e l’allestimento era del Théâtre du Châtelet di Parigi.

Pietro De Santis

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