Madama Butterfly alle Terme di Caracalla

Madama Butterfly alle Terme di Caracalla

Le Terme di Caracalla costituiscono una delle aree archeologiche più grandiose e visitate di Roma, perché conservano ancora gran parte della loro struttura e sono libere da edifici moderni. Nell’epoca imperiale erano le più sontuose della città benché destinate all’uso di massa dei vicini quartieri popolari. Abbandonato e riutilizzato a varie riprese, l’intero complesso venne infine sfruttato come zona agricola – vigneto in particolare – ancora nel XIX secolo, ad uso di proprietari di ville vicine o di enti ed associazioni ecclesiastiche. Nel corso dei secoli i ruderi vennero sfruttati come cava per materiali di pregio e per intere strutture da riutilizzare: il Duomo di Pisa e la basilica di Santa Maria in Trastevere contengono parti architettoniche prelevate di sana pianta da qui. Una certa quantità di marmi pregiati venne anche trasformata in calce e le terme furono spogliate di tutte le opere che contenevano: le statue andarono a far parte della collezione Farnese e presero la strada per Napoli; il torso del Belvedere è conservato ai Musei Vaticani ed ha avuto tanta importanza per l’arte rinascimentale a partire da Michelangelo; l’ultima colonna intera venne rimossa nel 1563 e fa bella mostra di sé nel centro di piazza Santa Trinità a Firenze, conosciuta come la Colonna della Giustizia. Nel 1938 fu scoperto il mitreo sotterraneo, il più grande esempio conosciuto a Roma (un altro famoso è collocato sotto la basilica di San Clemente). Le Terme potevano accogliere oltre 1.500 persone.

Non so chiarire bene il motivo, ma ogni qual volta vado ad assistere ad un’opera di Puccini mi sento annoiato e, non fosse stato per la collocazione nelle Terme, sicuramente avrei “saltato il giro”: ma un po’ per il luogo, un po’ per la cortesia di un amico violinista dell’Orchestra dell’Opera, ho accettato con sufficiente entusiasmo. L’aria caldissima di giovedì 30 luglio induceva a sperare in un più gradevole fresco serale, nel grande spazio all’aperto ove è sistemata la struttura smontabile: perciò ci siamo avviati.

È doveroso segnalare l’impressione di bellezza imponente, gradevolmente accogliente, dei ruderi circondati da prati verdissimi e – finalmente! – ben tenuti. Tra l’erba, un coniglio nero osservava incuriosito, a debita distanza, la lunga processione di spettatori che si avviavano verso le gradinate; poco più avanti, un gabbiano – nuovo padrone dei cieli romani – becchettava le carni martoriate di un piccione vittima dell’agguato, nel silenzioso rispetto umano ed animale.

L’opera inizia quando il cielo è quasi buio: alle nove circa nell’agosto romano. Abbiamo avuto il tempo di studiare con agio la scenografia montata: un bosco di bambù sulla sinistra, un prato al centro con tavoli e sedie necessari a montare un arredo da giardino in stile giapponese per festeggiare il matrimonio fasullo di Pinkerton e Cio Cio San (Butterfly).

L’inizio dell’opera ha indotto in me la noia di cui sopra; per di più l’impatto con l’amplificazione – in questo caso assolutamente necessaria – che altera i suoni conosciuti ed attesi, e qualche difficoltà iniziale nella tessitura acuta di Donata D’Annuzio Lombardi (Butterfly) e di Angelo Villari (Pinkerton) hanno aizzato il mio tipico atteggiamento ipercritico. Perché – oltre tutto – la musica ripetitiva, retorica, ridondante si appoggia ad un libretto (quasi insulso) di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa intriso di una pessima coscienza etnocentrica, consumistica e piccolo borghese.

La storia è semplice: un tenente della marina nordamericana – uno yankee – si invaghisce di Cio-Cio-San, soprannominata Butterfly. Guidato dal giapponese Goro che fa il mezzano, accetta di sposarla all’uso giapponese «per novecentonovantanove anni, salvo a prosciogliersi ogni mese». Il console degli Stati Uniti Sharpless non sembra convinto della bontà delle intenzioni di Pinkerton, come non lo è lo zio di lei che prevede una fine drammatica. Pinkerton non se ne dà cura e si apparta con la giovane; poco tempo dopo fa ritorno nel suo paese e Butterfly continua ad aspettarlo per anni con il bamino “frutto del peccato”. Tre anni dopo, Pinkerton riappare accompagnato dalla (vera) moglie americana. Il console, commosso dalle vicissitudini di Butterfly le promette aiuto: ma Pinkerton si rifiuta di incontrarla (per rimorso). Ormai presago dell’imminente fine tragica a causa delle rigide regole sull’onore, Sharpless vuole salvare almeno il figlio di lei, affidandolo al  padre. Kate (moglie di Pinkerton) cerca Butterfly e assieme alla di lei serva Suzuki, cerca di farle coraggio e le promette che tratterà il figlio come fosse suo. Visto che tutto e tutti le suggeriscono cortesemente di togliersi di torno, Butterfly impugna l’arma con cui «si muore con onore»: si ritira dietro ad un paravento e si squarcia il ventre con il coltello. Quando Pinkerton, tirato per le orecchie da Sharpless, compare è ormai tardi: Butterfly esala l’ultimo respiro. Buio sulla scena.

Dopo avere oziato mentalmente durante il primo atto, guardando intorno e cercando di decifrare le immagini proiettate sopra i muri delle Terme (animali? la luna? Il Fujiyama?) mi sono destato alla curiosità nel cambio di scena. L’allestimento della Sydney Opera House è interessante: le scene di Alfons Flores si montano e smontano semplicemente: i bambù si sfilano come ombrelloni; pezzi di collina si staccano e ricompongono come mattoni Lego ed i video di Franc Aleu completano le atmosfere arricchendole anche di significati storico sociali. La scena del secondo e terzo atto diviene un giardino nel cui mezzo c’è la casa di Cio Cio San, composta di due vani separati da un portico, con un tetto praticabile (sul quale la donna sale per scrutare verso il porto di Nagasaki). A fianco della casa ce un altro immobile “in costruzione” e sulla destra un cartellone pubblicitario avverte che la ditta Costruzioni Pinkerton mette in vendita immobili. La lettura (arbitraria) del sottotesto consente al regista Àlex Ollé (La Fura dels Baus) – coadiuvato dallo scenografo (Flores), dal costumista (Lluc Castells), dal regista video (Aleu) e dal responsabile delle luci (Marco Filibeck) – di raccontare una storia: ascesa, affermazione e demolizione sociale e culturale di una vita (o di una tradizione). All’inizio del secondo atto i video proiettati trasformano i muri delle Terme in grattacieli in costruzione, con tanto di gru (rossa), travi e piloni (gialli); poi i grattacieli sono completi e pieni di vita (luci accese e inquilini visibili dalle finestre); infine tutto è in decadenza e i bei palazzi sono mezzi rotti e si sbriciolano come avviene, ora davvero, nelle metropoli nordamericane. Il bellissimo gioco testimonia anche il trascorrere del tempo: i tre anni di cui si dice sopra.

Leggendo il lavoro registico abbiamo sintetizzato questo significato: l’occidente, che brilla per aggressività economica e tecnico scientifica – ma è opaco in termini di giustizia sociale – promette di “sposare” le tradizioni altrui, di cui pure (per un po’) si innamora; ma si tratta di brevi infatuazioni, condite di cattiva coscienza, che servono inoltre a giustificare la volontà di fagocitare tutto quanto sia utile (“Voglion prendermi tutto” canta Cio Cio San, atto terzo, scena terza). Raggiunto il proprio scopo, l’occidente abbandona ciò che non serve, appellandosi alla legge del mercato o alle esigenze di politica estera, senza fermare la mano di fronte alle opportunità più distruttive.

Ma il testo di Giacosa e Illica è assai meno rivoluzionario: tratta di una contrastata avventura sessuale – un capriccio per uno dei protagonisti – che si tramuta in eterna passione per l’altra. Si potrebbe sintetizzare in “mogli e buoi dei paesi tuoi”.

Immersi nelle luci, nelle scene, nel luogo, la musica (meglio se non disturbata dal canto amplificato) ha preso possesso di tutto: buona l’orchestra, diretta da Yves Abel; buono il coro muto, diretto da Roberto Gabbiani;  buoni anche i solisti. In particolar modo brava, nel finale, proprio Donata D’Annunzio Lombardi (Butterfly) che ha saputo articolare le arie drammatiche con ottimi pianissimo; molto è piaciuto Stefano Antonucci (il console Sharpless), ma tutti hanno meritato gli applausi. Come puntualmente mi accade, infine debbo riconoscere il contenuto poetico e spiccatamente teatrale della musica di Puccini che, piano piano, fà breccia nell’inconscio ed inonda la coscienza.

Musica di Giacomo Puccini

Tragedia giapponese in tre atti; libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa

Direttore Yves Abel; Regia Àlex Ollé (La Fura dels Baus); Video  Franc Aleu; Maestro del Coro Roberto Gabbiani; Scene Alfons Flores; Costumi Lluc Castells; Luci Marco Filibeck.

ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA, nuovo allestimento in collaborazione con Opera Australia / Sydney Opera House

Interpreti:

Cio Cio San: Asmik Grigorian /Donata D’Annunzio Lombardi (30, 6); Suzuki: Anna Malavasi /Anna Pennisi (14, 16, 30); Pinkerton: Angelo Villari /Fabio Sartori  (16, 6); Sharpless: Alessio Arduini /Stefano Antonucci (16, 30, 6); Goro: Saverio Fiore; Yamadori: Andrea Porta; Kate Pinkerton: Anastasia Boldyreva; Zio Bonzo: Fabrizio Beggi; Il Commissario Imperiale: Federico Benetti; La cugina: Cristina Tarantino /Claudia Farneti (16, 30, 6); La madre di Cio Cio San: Silvia Pasini /Emanuela Luchetti (16, 30, 6); L’Ufficiale del Registro: Leo Paul Chiarot /Antonio Taschini (16, 30, 6).

Pietro De Santis

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