Nessun uomo è un’Isola

Nessun uomo è un’Isola

intero in sé stesso.

Ogni uomo è un pezzo del Continente
una parte della Terra.

Se una Zolla
viene portata via dall’onda del Mare,
l’Europa ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,

o una Dimora amica,

o la tua stessa Casa.

Ogni morte d’uomo mi diminuisce

perché io partecipo dell’umanità.

E così non mandare mai a chiedere
per chi suona la campana:

Essa suona per te.      (John Donne, 1573-1651)

Era un giorno di primavera, non molto tempo fa.

Con Gianni    si scherzava: io ero più vecchio,     ma lui era più anziano; io per l’età,      lui per gli anni di insegnamento.

In quella primavera, non molto tempo fa, non erano ancora accadute alcune cose, anzi molte cose.

Si parlava delle difficoltà del nostro mestiere,         delle incomprensioni,          di quella che ci sembrava indifferenza,     da parte dei ragazzi,        nei confronti della scuola.

Si parlava,    anche,     di quella che ci sembrava    indifferenza della scuola – cioè di noi stessi – verso i ragazzi.

Ci sembrava che ogni giorno diventasse più difficile la possibilità di parlare e di essere ascoltati – da chiunque –; ci sembrava che, un tempo, fosse stato più facile; intendo dire

un tempo ancora precedente.

Stavamo facendo discorsi stanchi.

Ci dicemmo “Gianni! Dario! Stiamo facendo discorsi stanchi!”

Annoiati della nostra stessa stanchezza,   ci dicemmo però,   anche,   che tuttavia era bello ancora scoprire – in quell’oggi di non molto tempo fa – di essere ascoltati talvolta:

qualche studente ci aveva ascoltato.

Cioè qualcuno aveva ascoltato Gianni con la sua informatica (ma forse non solo a causa dell’informatica) e Dario con la sua Elettronica (ma forse non proprio a causa dell’elettronica)..

Oppure qualche ragazzo ci aveva esposto    (per misteriosi motivi)    le proprie aspettative come se il nostro parere,   per lui fosse importante.

Qualche ragazzo aveva avuto il coraggio di mostrare il suo spessore umano.

Per quale motivo? ci domandavamo, talvolta accade questo fenomeno e altre volte (purtroppo più spesso) non accade?

Lo chiedemmo ai nostri ragazzi: ci risposero che in quelle migliori occasioni, l’insegnante era stato diverso, e la cattedra su cui sedeva       non sembrava così distante dalle loro sedie.

Era successo che l’insegnante – senza rendersene conto – aveva mostrato un altro aspetto di sé,   non era apparso il solito insegnante: sembrava… più ricco

Quell’altro aspetto era stato interessante! Per l’appunto, ci dissero

Chiedemmo il significato di interessante, secondo loro.

Io e Gianni ascoltavamo i ragazzi: ci dicevano che,    generalmente,    uno di loro diventa interessante agli occhi del professore    per due motivi:

se gli dà soddisfazione nella materia che quello insegna

o se rappresenta un caso umano (che, secondo loro, significa ugualmente dare soddisfazione).

“E che – dicevo io – per risultare interessante ai miei studenti dovrei, a mia volta, diventare un caso umano?” Gianni se la rideva.

Disse, che lui pensava un’altra cosa: i professori sono sempre troppo uguali a se stessi e a tutti quelli che stanno fuori della scuola; genitori, parenti, politici.

Ripetono sempre le cose che uno già si aspetta,     oppure non si fanno capire.

Poi sono pieni di rabbia e invidiosi,     oppure prevedibili,      anzi,     già previsti.

I ragazzi ci dicevano che un nuovo professore sarà – più o meno – uguale al precedente: cambierà l’accento, cambierà il vestito, il profumo sarà più o meno buono, ma alla fine succederà sempre la stessa cosa,

raramente un professore ti sorprende.

Il copione è già scritto da anni.

Già, il copione…  ripeteva Gianni

Ma un insegnante non è un attore – dicevo io – e non recita un copione…

lui sta lì con la sua professionalità…

Io, per esempio, sto lì con i miei elettroni; gli elettroni sono sempre quelli, non cambiano mica da un giorno all’altro… La legge di Ohm bisogna capirla…

a Gianni! mica posso recitare le poesie.

Ma secondo me,    diceva lui,     non è questo il punto.    Quando andiamo in classe, abbiamo il nostro pubblico, che sono gli studenti: se il nostro pubblico ci sta a sentire, impara anche che cosa sono i tuoi elettroni e la legge di Ohm.        Poi il risultato diventa eccezionale se il pubblico comincia a recitare     e si cala dentro al copione che gli hai preparato…

Mah, non so, mi sembra poco serio – gli dicevo io – ma sì, poco serio pensare di stare in classe e recitare…

Ma senti Dario, seguitava Gianni, se un giorno vieni a scuola che hai litigato con tua moglie (quando accadeva questo dialogo, ero già sposato) che fai?       ti sforzi di far lezione o lasci cadere sui tuoi studenti la rabbia della lite?

Bah… insomma… rispondevo, mi fa fatica… ma faccio lezione.

È pure vero che qualche volta, che sono entrato in aula con un diavolo per capello, ma mi sono sforzato di dire quello che avevo preparato,

alla fine ero più contento di altre volte in cui non avevo dovuto faticare … come se fosse accaduto qualcosa di nuovo,    anzi di migliore… eh sì,  mi ero proprio sforzato di parlare con loro

Allora vedi? Mi diceva Gianni…

Sì, ma la scuola è un dovere, riprendevo io…

Perché, tu pensi che un dovere debba essere per forza un sacrificio? Non può dare anche soddisfazione e far contenti? Gianni sulle sue idee era piuttosto insistente…

Quindi tu dici che quando entriamo in aula dobbiamo pensare agli studenti quasi come ad un pubblico? Gli domandai per risposta

Di più, diceva lui, come ad un pubblico che conosci personalmente e al quale puoi rivolgerti meglio… almeno, questo mi hanno fatto capire i ragazzi con cui abbiamo parlato.

Ma Gianni, tu lo sai meglio di me che ci sono classi in cui è impossibile fare lezione… quale teatro… appena entri, il teatro lo fanno loro           e devi passare tutto il tempo a richiamarli, a urlare, mettere note… e chi ti sente!

Senti Dario, non me ne volere, diceva lui: ma si vede che la tua lezione non era preparata bene, almeno non per loro… talvolta è necessario rivedere i propri piani, recitare in un’altra maniera;     starci dentro,      anche a fatica, ma starci dentro…

Ma d’altronde quanto può interessare a loro, bambini o adolescenti, ascoltare per cinque anni, poi altri tre anni, e poi altri cinque sempre gli stessi discorsi: il ragazzo capisce ma non si applica…, è troppo distratto… E giù rimproveri.

E poi, parliamoci chiaro, quelli che studiano bene, e in autonomia, mica lo fanno per merito tuo… studierebbero lo stesso anche da soli…

Che ti devo dire Gianni, forse hai capito meglio tu quale sia la richiesta dei ragazzi… tu dici che l’insegnante dovrebbe anche recitare un po’?

Eh già, concluse lui, insegnare pensando ai propri studenti, che conosce direttamente, uno per uno, possibilmente guardandoli in faccia, senza parlare rivolgendo le spalle mentre scrive alla lavagna o tenendo gli occhi fissi sul libro o sul registro…

Un bravo attore, quando recita, non è distratto dagli affari suoi…     se sei un bravo professore ci devi stare con la testa, capire quello che i ragazzi ti chiedono,       a parole o in un altro modo…

In quel momento giunse qualcuno e ci dicemmo che avremmo ripreso il discorso.

Era primavera e a Gianni piaceva esporre i suoi pensieri

Dario F. (19/05/2015)

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