Una pura formalità

Una pura formalità

In una notte di tempesta, un uomo (Roberto Sturno) corre sotto la pioggia e viene fermato da alcuni gendarmi (Giuseppe Nitti, Amedeo D’Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore) che lo conducono al posto di polizia. Su questa scena di pioggia sul fondale si apre il sipario e lascia apprezzare una bella scenografia di quinte scorrevoli, che evoca immagini kafkiane: anonima, grigia, con pochi elementi caratterizzanti. L’uomo, privo di documenti, si oppone ai militari che non vogliono lasciarlo andare e faticano per calmarlo.Il commissario (Glauco Mauri) gli spiega che intende trattenerlo per una pura formalità, poiché quella notte, nei dintorni, “è stata uccisa una persona”. Alle prime domande lo straniero si presenta come Onoff, scrittore amatissimo dallo stesso commissario che, però, non ne riconosce la fisionomia e si fa beffe di lui. Lo scrittore stizzito gli cita passi dei suoi libri e il commissario si convince: ma all’entusiasmo nel trovarsi di fronte il suo scrittore preferito, subentra rapidamente lo zelo con cui inizia un serratissimo interrogatorio incentrato sulle ultime 24 ore. Onoff risponde in modo impreciso e reticente, manifestando smemoratezza ed un’inquietudine che lo induce a scatenare una nuova colluttazione con gli agenti di servizio. Tenta ancora la fuga durante un black-out, approfittando del buio, ma viene di nuovo catturato. Il commissario gli dimostra di sapere molte cose sulla sua vita privata e lo mette alle strette presentandogli un pacco di fotografie prelevate da casa sua. Incapace di fornire un alibi che possa scagionarlo dalle accuse, Onoff confessa di avere inventato la propria biografia ufficiale: il suo vero nome è Biagio Febbraio (nome impostogli perché abbandonato alla nascita nel giorno di San Biagio, il 3 febbraio) e deve invece lo pseudonimo ed il primo libro di successo ad un enigmatico personaggio, suo maestro ed amico. Rievoca la burrascosa giornata precedente e rivela la propria crisi artistica che gli impedisce di scrivere, culminata col desiderio di essere dimenticato. Passo dopo passo arriva a ricostruire la verità, che il commissario sembrava avere già compreso o addirittura conoscere dall’inizio: l’uomo ucciso è lui stesso, suicida. Solo ora Onoff comprende come il posto di polizia ed egli stesso non appartengano più al mondo terreno.

Alle prime luci dell’alba e senza opporre resistenza, Onoff viene portato via; il Commissario, nel commiato gli confida di avere letto qualcosa dell’ultimo manoscritto inedito, trovato a casa sua, forse il migliore romanzo che abbia mai scritto.

Il testo teatrale, molto ben scritto da Glauco Mauri e recitato in modo superbo, ripercorre fedelmente la sceneggiatura cinematografica di Giuseppe Tornatore, che affronta il problema della morte e della vita. La vita e la morte sono rette parallele che si incontrano “in un punto improprio” spiega il commissario; ma in questa pièce la morte corrisponde ad una perdita d’identità e di memoria: un individuo comincia a morire quando smarrisce i ricordi, si confonde su di sé e su coloro che lo circondano. Il recupero dei ricordi e dell’identità riporta alla vita o, quantomeno, alla serenità, fosse solo per un istante…   e qui il sipario si chiude, senza una qualsiasi definizione retorica che soddisfi le domande possibili: il commissario rappresenta la nostra coscienza? (il super io diremmo noi) e i gendarmi sono gli spasmi nell’agonia? Rimane qualche istante di silenzio, gli applausi scroscianti, i saluti composti degli interpreti. Poca voglia di commentare un bel testo, superbamente recitato.

Non avanzo alcuna obiezione all’idea che un elemento fondamentale della vita (biologica e psicologica) sia la memoria, e che essa contribuisca decisamente all’identità personale, mentre rappresenta l’unico vero costituente della vita sociale e della civiltà. La memoria ha, però, il difetto di garantire la consapevolezza del tempo e del suo scorrere; invece la perdita o la confusione di qualche ricordo fornisce felicemente alibi al nostro comportamento (e spesso è desiderata e persino simulata): ma la perdita totale della memporia proietta invece in una realtà senza tempo – che è quasi una morte psicologica – che regala una forte un’anestesia consolatoria. Questo (tra altri pensieri) mi suggerisce l’osservazione di individui perduti nella ripetizione ossessiva di gesti (o nella voragine dei videogiochi) mentre assorbono ogni briciola di attenzione e consumano il tempo voracemente. Quella perdita di consapevolezza e di memoria simula la morte, ma consola poiché rimaniamo vivi biologicamente.

Sulla morte ciascuno di noi concepisce fantasie comunque deliranti: dall’assenza (simulata) di ogni fantasia, all’idea di un mondo “migliore” o di mondi differenti o di un’Ade nel quale vagano individualità incorporee, i fantasmi. Preferisco però riflettere sull’altro aspetto del problema: il mondo è memoria. Proseguento nella parafrasi del testo teatrale il commissario, che forse è la coscienza, dimostra un’ottima memoria che corrobora la sostanza dei suoi ragionamenti: bisogna nutrire la memoria con la lettura, con l’osservazione, con l’analisi delle contraddizioni (proprie ed altrui). Questo sforzo ci garantisce identità e dignità: oltre c’è il non pensabile, l’assurdo.

Un po’ di curiosità, irrisolte, restano sui nomi scelti da Giuseppe Tornatore  e ribaditi nell’allestimento teatrale: Roberto Sturno è lo scrittore Onoff e Glauco Mauri il Commissario Leonardo Da Vinci; con loro in scena: Giuseppe Nitti, Amedeo D’Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore sono i gendarmi. Le scene sono di Giuliano Spinelli, i costumi di Irene Monti, le musiche di Germano Mazzocchetti.

pietrodesantis

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