Il fatto che tu sappia

Il fatto che tu sappia

L’ora  col bambino era, per me, pesante. Parlava poco: qualsiasi mia frase sembrava rimbombare da sola nella stanza. Mi sembrava proprio vuota…

Il mio rapporto con i disturbi di apprendimento non segue la linea delle diagnosi che leggo: «Sono cognitivamente abile a suonare la chitarra, ma non so suonarla; sono forse dischitarrica?» ride una ricercatrice, che si batte contro gli atteggiamenti dogmatici della scuola italiana.

Il piccolo, con i suoi capricci quotidiani, riesce a completare i sussidiari estivi: multidisciplinare, inglese, cittadinanza, due libri di lettura striminziti e la nostra avventura si conclude senza che sia riuscita ad ottenere un sorriso spontaneo da questo bambino succubo di una madre iper presente.

L’estate successiva si ripropone il  medesimo problema: compiti estivi. Ha ancora le sue difficoltà, ulteriormente accresciute. Siamo prossimi alla terza elementare. Si reca dalla logopedista

E i compiti….. Questi famosi compiti torturano me come lui che ha paura di non essere intelligente, che si sente diverso, che tiene tutto sotto controllo, che ha paura di non essere amato…

Getto tanti ami: frasi, gesti che provo a far diventare piccoli riti; tento di infastidirlo chiamandolo con il nomignolo che usa la madre e ottengo la prima piccola ribellione, e provo anche con gesti affettuosi seguiti dal rifiuto totale, terminando con ciò che più odio fare, la caramella e il premio.

La caramella e il premio si mostrano tuttavia gli unici metodi idonei a farci scrivere sui nostri quaderni operativi.

Provo a far capire alla madre che, magari, non terminare le 50 pagine di inglese, non è reato…; ma la mamma ancora non è pronta al fatto che il figlio, di sette anni, non sia un genio conclamato. La sorella ha una pagella….di quelle…. da far provare invidia? da essere orgogliosi?

…vorrei che il piccolo venisse rispettato di più, sia nei limiti, sia nei desideri. Ma quali sono i desideri di questo bambino che non mostra interessi, che ha scarso senso dell’umorismo, che parla poco, ma forse un po’ di più e inizia a preferire me come figura di aiuto, rispetto alla madre; e quando gli vado scomoda tira fuori il padre…

Tra i vari miei gesti, buffi, provocatori, e quant’altro, ho trovato due piccole aperture. La prima narra di me che mi alzo e vado alla finestra (Matteo ha una disperata necessità di fare da solo….) «….quando hai terminato chiamami»; la seconda il nostro «batti cinque» che non facciamo con il palmo delle mani ma con la punta delle matite (non accetta nessun contatto).

All’inizio aveva il timore che mi avvicinassi al tavolo prima che avesse finito, poi ha capito che, pur muovendomi nella stanza, non avrei invaso i suoi spazi, e successivamente si è reso conto che avrebbe dovuto chiamarmi per farmi tornare alla sedia.

Mi fischiava. Emetteva un fischio (gli avevo detto che io non so fischiare). Ho accettato il compromesso prima di dirgli, ferma nei toni, – ho un nome: mi chiamo Anastasia-.

Ogni giorno, sempre e comunque, mi fa presente che non ha voglia di fare i compiti con me  (fare i compiti è sufficiente) e ogni giorno, sempre e comunque, un piccolo compromesso riusciamo a trovarlo. È faticoso. Con lui sono spesso, per non dire sempre, costretta alla metodologia lavoro-premio.

Tra vari cambi di rotta, mi dimeno tra la logopedista (ancora esercizi potenziamento memoria e varie) la madre (ma questi compiti li finiamo?) e vado alla ricerca di quel che il bambino non mostra. «E’ un bambino sereno» afferma la mamma « va a scuola proprio contento».

-Ma tu andresti contenta a scuola, consapevole di non saper leggere, in una classe che marcia come un treno?- sono i miei pensieri, che rimangono tali.

Tento di provocarlo, leggermente. Sono piccoli i pizzicotti che gli do…aspettando una reazione. Un giorno mi dice, quasi con rabbia: «decidi sempre tutto tu…» Ma la mia vera felicità è arrivata quando, di fronte un brano da leggere, al mio esclamare «vai, cominciamo, è carinissimo» sento replicare «non è carino, fa tutto schifo quello che leggo!!!» e con rabbia… La stanza è meno silenziosa. Ed io gli mollo, a tradimento, un bacio sulla guancia: «bravo… bravo….» mi guarda come se venissi da un altro pianeta…

Inizio, con molto tatto, ma insistentemente, a dire alla madre che forse sarebbe il caso che qualcuno spieghi al bambino come mai non legga bene: «Facciamo in modo che vada realmente a scuola sereno». Essere bambini non equivale a non comprendere quel che accade intorno; tanto più questo bimbo, che controlla tutto.

E inizia a parlare un po’, con me. Non molto, è un inizio e me lo faccio bastare. La sua collocazione è come dentro a una bolla d’aria in cui si sente solo. So che ha diritto ad alcune risposte; quelle da cui tutti si mantengono lontani.

Probabilmente è davvero dislessico; ed in questa catena di relazioni identiche ho la pelle d’oca. Ho paura di sbagliare e non mi sento all’altezza. Ma il bambino ha lasciato aperta una fessura, da cui filtra lievissimamente una luce… e l’ha fatto con me.

All’inizio dell’anno scolastico la madre mi propone, a seconda dei miei impegni con gli altri bimbi, di proseguire il lavoro. Mi fa piacere convenire che la vergogna, mista a dispiacere, stia cedendo il passo a ciò che è importante. Organizzo gli orari di modo di riuscire a seguirlo quotidianamente lasciandogli un giorno libero.

Vengo informata che presto avrebbe ripetuto i test di apprendimento – in terza elementare è “obbligo”, per una giusta diagnosi – in una struttura privata.

La normativa riguardo i DSA, oggi inglobata nei BES, deve tener conto solo delle diagnosi che provengono da una struttura pubblica, tuttavia il dirigente, in casi particolari e con una relazione alle spalle di una ASL competente, può – e sottolineo può – convalidare quella privata.

Un esperto, o forse l’equipe – non so -, valuta il piccolo in questa struttura, nelle sue abilità. Ne esce una diagnosi abbastanza grave. – Severa – è la parola che hanno utilizzato, parlando della sua dislessia. Inoltre è discalculico e disprassico.

Una diagnosi accurata e particolareggiata, la più approfondita di quelle che fin ora abbia letto. Ho letto tutto ciò che ho trovato, di sensato: non sembra esistere -o forse non trovo io- un testo diverso, più approfondito che mi sveli l’origine e le cause, e le reali differenze e similitudini tra discalculia e dislessia. “L’intelligenza numerica” è in arrivo per la mia libreria…

«Disprassico?» chiedo informazioni alla madre, quando il bambino non è presente. «Si, è un po’ goffo e imbranato» Mi esce una risata clamorosa…definire uno, -bello come un principino-, goffo mi fa rivalutare  tutta la relazione. «No non è goffo affatto» (ha timore, è diverso). Ma non posso spiegarne i motivi, poiché a quel punto riderebbe la madre.

Ogni giorno ed in ogni ora che noi passiamo insieme, uno di fronte all’altro, il bambino fa cadere la matita almeno dieci volte. Peccato che non dia lui neanche il tempo di raccoglierla; ne ho giusto io una in mano. Mesi fa gliela passavo, oggi è lui a prelevarla dalla mia mano, mentre io raccolgo quella a terra.

Poi ci cadono gomme, penne e colori, ed ogni tanto la sedia… e tutto quello che abbiamo a disposizione. Ma non è goffo nemmeno in quel suo tentare di esserlo..

Per ora preleva dalla mia mano quanto gli serve; arriverà il momento in cui dovrà raccoglierli da solo quegli oggetti, e quando arriveremo a quella situazione, sono certa che il bambino non avrà più la necessità di buttare tutto in terra, perché saprà leggere i compiti nel suo diario ed orientarsi nell’orario del giorno dopo.

Dalla modalità premio-compiti, tiro fuori la storia delle «caramelle al gusto di…. ». Solitamente evito di trattare un -bambino- come un -bambino piccolo-; ma lui sembra aver bisogno di questo; ed io mi dispongo alle sue esigenze. «Oggi vuoi la caramella della matematica, della lettura super, o della pazienza? ah no…quella della pazienza è per me!» e sono anche credibile, perché di pazienza davvero ne ho tanta; anche se preferisco parlare di passione….

La settimana scorsa ha esclamato «quella dell’amicizia?»  ,…e sorrido, tra i brividi, ma non è affatto freddo. «E’ una domanda? vuoi quella dell’amicizia? «Sì… va bene…» (mi fa un favore: tra l’orgoglio e l’insicurezza ). Oggi, tenerissimo, ha spezzato la caramella in due, perché ne era rimasta solo una alla fragola, che è la più buona delle gelée, ed a noi serviva sia per l’inglese che per la matematica. Ed ha scelto lui di farlo… E sempre da oggi: battiamo i palmi delle mani e non la punta delle penne; ma lo facciamo a modo nostro, diverso dagli altri, perché la diversità arricchisce….e lui, ha compreso la mia, di diversità: dagli atteggiamenti ai ragionamenti… Noi battiamo il palmo, poi il dorso, e di nuovo il palmo.

Se è dislessico quindi non possiede una ferrea memoria a breve termine; però è anche molto acuto e proponendogli un argomento in maniera meno schematica (al bando gli strumenti compensativi, quando non servono realmente) pone le sue domande. Ed è proprio attraverso le sue domande che io comprendo le sue difficoltà. Seguo il suo pensiero, o almeno ci provo…  Mi incantano le frasi infantili miste  a domande acutissime, di questo bambino, che è convinto di essere stupido; “tonto” per usare la sua esatta espressione. Abbiamo poi finalmente affrontato l’argomento.

« noi dobbiamo parlare un po’» gli dico; « di che….»; « del perché sei andato a rispondere a tutte quelle tante tantissime noiose e noiosissime domande» mamma mia tutta d’un fiato.

Aspetta una mia risposta: ed io gliela do: «ogni persona ha un proprio metodo per capire geografia, storia, matematica, e pure come si fa un dolce….»; « sono tonto…»

Sorrido, perché altrimenti dovrei mettermi gli occhiali da sole…; è difficile, Pietro, trovare le parole giuste… Quando è insicuro, o si sente «tonto» o ha timore di esserlo, piega leggermente il viso da un lato…; lo fa anche quando crede che una domanda che pone sia sciocca, o quando non è in grado di svolgere  qualcosa nel libro di testo…

Io provo allora a spiegare preventivamente quel che ci chiede l’esercizio, leggendolo a voce alta come dovessi decifrarlo per me stessa,  lasciando spazio al silenzio quando è in grado di svolgerlo, per poi chiedergli di farmi capire cosa sta facendo. In bilico: e la corda mi sembra sottilissima.

«Non si tratta di tontaggine…si tratta di capire invece» Il dialogo tra noi è stato più lungo, ed ogni giorno, ora, gli chiedo se preferisca parlare un po’ o iniziare subito. Con gli altri parlo sempre, a lui chiedo di farlo.

« parlare di che?»; « di quel che vuoi»; « parliamo! di cosa parliamo?» mi guarda…

Io mi dibatto ancora tra le mille richieste: genitoriali, delle insegnanti e di tutti gli esperti intorno. Ma tra tutte queste figure, la precedenza assoluta la do al principino imbranato. Ha la fortuna di avere una maestra dolcissima, che conosco molto bene.

Arrivare fin qui mi è costata tanta fatica; giorni no, e giorni meno no. Tra tutti questi no, il bambino mi ha concesso la sua fiducia, che ancora è precaria, ma tengo custodita come oro; mentre io gli chiedevo – non a parole – di farmi tentare di capirlo un po’, e di aiutarmi a comprenderlo.. Mi veniva in mente una frase, che rispecchia anche me: “Sai Pietro, io sono molto tenace, e non mi arrendo”

La madre mi ha detto «avevi ragione, ti ho pensato mentre mi spiegavano….» Avevo detto lei che suo figlio avrebbe dovuto prima o poi ribellarsi, e che sarebbe stata la nostra fortuna. Glielo ripetevo da questa estate… mentre ancora insisteva sulla felicità e serenità del bambino.

Sono consapevole che il lavoro vero inizia ora e che arriveranno momenti difficili, di stasi, e che ogni rifiuto, e ribellione, spetterà a me.  Ma per ogni volta che vorrà alzarsi ed andare alla finestra, evadendo un po’, non troverà chi gli dice: «fermati …che fai..»….bensì  “apriamo, e chiediamo a quei signori come si chiamano?” E giù seduto..

Oggi, esilarante, mentre studiavamo inglese, mi ha detto: «aspetta un attimo, fammi scrivere, voglio capire…..» e mentre io parlavo «what’s your name?» lui scriveva «what iu name? «su un post» . Ne ha riempiti 5 e voleva conservarli per attaccarli in camera e studiare la sera…

Nel frattempo giocavamo con i nomi: “what’s your name?” ; “my name is Umberto” Poi Giacobbe, Adelina, e al via la fantasia…. cominciando a ridere un po’; provando a scrollarci di dosso quella pesantezza che non aiuta lo studio di qualsiasi bambino di otto anni, e per lasciare spazio ad un corollario di immaginazione che arricchisca di significato la conoscenza, e posando il pesante fardello delle nozioni poco interiorizzate.

Allora sì Pietro…sono brava… E il premio dove sta? non lo vedo… Allora l’ho cercato da sola un premio che mi appaghi: una parte riguarda che tu sappia, il fatto che tu lo sappia perché tra tutte le persone che frequento, con cui mi confronto o relaziono, tu sei quella che più di tutti sa quanto sia importante per me, e non sempre abbiamo modo di parlarne; un’altra parte è un foglio, stampato oggi, con un bollettino non ancora compilato, del quale non posso parlare… Ma domani mattina, correndo, magari provo a vedere dove conduce quel filo…

“…voglio capire”, mi ha confidato Matteo

Anastasia Gyorki

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