Viviani Varietà

Viviani Varietà

Non avevamo tanta voglia di parlare di questo spettacolo – visto già da un paio di settimane – ma poi lo abbiamo fatto perché ce lo hanno chiesto e per altri due motivi: uno, abbastanza banale, e cioè non sprecare la possibilità di raccontare un fatto artistico; l’altro più ragionevole, cioè avere il pretesto per parlare del teatro popolare (‘O vico – il vicolo – secondo Raffaele Viviani).Lo spunto fornito invece dal regista ci è sembrato invero piuttosto debole: “In questo Viviani Varietà abbiamo pensato al viaggio che nel 1929 Viviani e la sua compagnia avevano fatto sul piroscafo Duilio da Napoli a Buenos Aires per una lunga tournée nel Sud America e abbiamo voluto immaginare le prove dello spettacolo realmente destinato agli emigranti italiani che con loro attraversavano l’oceano per un avvenire incerto da costruire; confortati in questo anche da inedite testimonianze scritte, proprio durante quel viaggio, dallo stesso Viviani.” (Maurizio Scaparro, note di regia)

In effetti il riferimento al viaggio è reso nella scenografia: la sala del piroscafo, spalancata verso l’oceano mare; le porte delle cabine che si aprono verso l’interno, cioè verso il pubblico; lo spazio del palcoscenico per le prove, fronteggiato dall’orchestrina al piano platea.

Le vicende che accadono durante “le prove” dello spettacolo, offerto ai passeggeri dalla compagnia per festeggiare il passaggio all’equatore, sono però piuttosto prevedibili: piccole discussioni; gelosie tra soubrettes; solidarietà verso due popolani “clandestini”, arruolati nascostamente tra gli attori ed inseriti nello spettacolo; tutto ciò non ci sembra giustificare la messa in scena né gli scritti di Viviani, cui si fa riferimento, sembrano tali da passare alla storia. Il secondo atto dello spettacolo offerto all’Argentina è “lo spettacolo” immaginato sul Duilio.

Il teatro popolare ha un’origine antichissima, sacra e profana: secondo le teorie nietzschiane la primogenitura spettò al rito; poi, da quello, nacque il teatro. Il rito originario – così ricordiamo dalla lettura di La nascita della Tragedia (1872) – era la rievocazione del sacrificio di Dioniso fatto a pezzi dai Titani, proposta attraverso una celebrazione rituale nella quale veniva offerto il Tragos (un caprone) forse in sacrificio agli dei o forse quale premio al “cerimoniere”: in effetti il termine tragedia significa letteralmente “canto per il capro”.

Una teoria più recente (Sandro Gindro, Eros e Bios, 1979), propone la nascita contemporanea di rito e teatro, inizialmente differenti per argomenti ma non per stilemi: rappresentavano – in ogni senso – il bisogno di raccontare e raccontarsi dell’essere umano. Mentre il teatro assunse regole che lo distolsero, almeno parzialmente, dalla cultura popolare autentica, i riti sacri conservarono molto a lungo la matrice originaria tanto che, anche al momento attuale, le meravigliose processioni o i riti dei santi patroni nei paesini più tradizionali coinvolgono partecipazione, sentimenti ed emozioni di protagonismo autentico e liberatorio del “popolo”, spettatore e protagonista ad un tempo.

La vicinanza al popolo viene continuamente rinnovata anche nel teatro popolare profano che si è espresso, nei teatrini di periferia o negli spazi parrocchiali e associativi, facendo largo uso del dialetto (o di quel che ne rimane) ed esprimendo, attraverso forme di arte varia, in modo efficacemente grossolano i sentimenti più forti e “tragici”: il drammatico desiderio di mangiare; l’amore passionale; la gelosia paranoica; ma anche affetti incredibili, gesti di lealtà, debiti di riconscenza come nella canzone-teatro “Bammenella” di Raffaele Viviani.

Raffaele Viviani faceva rivivere in palcoscenico guappi veri e guappi falsi, popolani e madri di quartiere, prostitute, venditori ambulanti e cantastorie, nelle scene della quotidianità, con il loro linguaggio violento e beffardo che rappresentava quel mondo, incredibilmente vero, magari ingiusto o immorale, che egli amava profondamente perché lì era nato, aveva trovato la propria anima e la propria identità. Forse, attirando su di esso un’ampia attenzione, ne avrebbe agevolato la comprensione e favorito l’emancipazione, ma non siamo sicuri che tale fosse il suo intento: crediamo che ne volesse attirare l’amore.

Molto bravo ci è sembrato Massimo Ranieri, esibitosi anche nella canzone della prostituta “Bammenella” con il pretesto di imbastire una prova per la cantante designata: davvero ammirevole nel cantare, ballare, recitare. Ma nonostante le qualità e la provenienza da un simile mondo, la figura ormai piuttosto còlta di Ranieri ci sembra piuttosto lontana da quella arcaica e famelicamente vitale di Viviani.

Abbiamo trovato molto bravi tutti gli attori, in particolare i tre co-protagonisti: Ernesto Lama e Roberto Bani dalla notevole carica “agonistica” (questo termine ci ha suggerito un po’ fantasiosamente l’inconscio e lo accettiamo) e Angela Di Matteo la cui presenza scenica e la bella ed intonata voce un po’ nasale ci ha fatto realmente immaginare la “donna” napoletana paranoica, violenta e generosa.

Le scenografie e i costumi sono belli, seppur di genere; la musica bellissima (purtroppo non riusciamo a ricordare né a ritrovare il titolo di una struggente canzone d’amore tra un guappo ed una prostituta, entrambi “schiavi” dello stesso capo); la regia buona, senza particolari invenzioni.

Poesie, parole e musiche di Raffaele Viviani, in prova sul piroscafo Duilio in viaggio da Napoli a Buenos Aires nel 1929
con Massimo Ranieri; regia Maurizio Scaparro

con Ernesto Lama
e con Roberto Bani, Angela De Matteo, Mario Zinno, Ivano Schiavi, Gaia Bassi, Rhuna Barduagni, Antonio Speranza, Simone Spirito, Martina Giordano
l’orchestra
Massimiliano Rosati, Chitarra
Ciro Cascino, Pianoforte
Luigi Sigillo, Contrabbasso
Donato Sensini, Fiati
Mario Zinno, Batteria

elaborazione musicale Pasquale Scialò
testi a cura di Giuliano Longone Viviani
scene e costumi
Lorenzo Cutùli
movimenti coreografici
Franco Miseria e Massimo Ranieri

Fondazione Teatro della Pergola | Compagnia Gli Ipocriti

(pietro de santis)

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