Alì ha gli occhi azzurri

Alì ha gli occhi azzurri

“… deponendo l’onestà / delle religioni contadine, / dimenticando l’onore / della malavita, / tradendo il candore / dei popoli barbari, / dietro ai loro Alì / dagli occhi azzurri / usciranno da sotto la terra per uccidere…” (P.P. Pasolini, Profezia, 1962-64)


“… I Persiani, dice, si ammassano alle frontiere. / Ma Milioni e milioni di essi sono già pacificamente immigrati, / sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409, / dei tranvetti della Stefer / Che bei Persiani! /Dio li ha appena sbozzati, in gioventù, / come i mussulmani o gli indù: / hanno i lineamenti corti degli animali / gli zigomi duri, i nasetti schiacciati o all’insù, / le ciglia lunghe lunghe, i capelli riccetti. Il loro capo si chiama: / Alì dagli occhi azzurri.” (P.P. Pasolini, Ringraziamenti, 1965)

Il titolo del film di Carlo Giovannesi è un omaggio a Pier Paolo Pasolini ed alla sua “Profezia”, cinquant’anni dopo la prima stesura: forse è anche la ragione per cui è stato ambientato e girato nella periferia romana, che dal raccordo anulare arriva fino a Ostia. Ma fa riferimento, nello stesso tempo, alla poesia finale “Ringraziamenti” tratta dalla omonima raccolta “Alì dagli occhi azzurri”.

La pellicola racconta una settimana di vita – cioè la vita – dei nuovi “borgatari” romani: italiani ed immigrati, che compongono l’universal caleidoscopio delle nuove incredibili periferie, da Laurentino 38, ad Acilia, a Ostia Lido.

Protagonisti sono Stefano (Stefano Rabatti), Nader (Nader Sarhan) e il loro coetaneo Adrian (Marian Valenti Adrian). Stefano e Nader sono amici per la pelle: commettono insieme  piccoli furti; frequentano la stessa scuola; rincorrono, affannati, un consumismo violento affrontando un mondo ostile, forti della reciproca amicizia.

La bellezza di Nader esprime dignità – frutto di una cultura arcaica nobile, per quanto corrotta dai tempi – e suscita ammirazione e desiderio. Egli vuole essere “italiano”, per questo compie gesti trasgressivi: ha scelto una fidanzata “cristiana” Brigitte (Brigitte Apruzzesi); mangia carne di maiale.

Stefano, disorientato da un padre rozzo e dall’assenza di una madre, è vittima della propria indecisione, cui si ribella oscillando tra rabbia e frustrazione. Dalla sua debolezza scaturisce il “clinamen”, motore della vicenda: si ostina a pedinare la ex fidanzata e l’affronta in discoteca perché balla con un altro; nella collutazione che ne segue ha la peggio; ma interviene Nader che vibra una coltellata all’avversario.

La comunità rumena, di cui fa parte il ferito, cerca vendetta. I due amici fuggono: Nader viene ospitato da Brigitte; poi dal padre di Stefano, infine da un amico egiziano innamorato di lui, in un contesto sempre più confuso. In contrasto con la madre (Fatima Mouhaseb) Nader non vuole più tornare a casa nemmeno quando il pericolo è passato; non accetta l’idea che “gli Italiani siano buoni, ma diversi da lui”. Infine spara all’amico Stefano, per difendere l’onore della propria sorella: rimane solo, dipendente dall’affetto di Brigitte.

L’intento di Giovannesi è raccontare “la vita di un adolescente che prova a disubbidire ai valori della propria famiglia: in bilico tra essere arabo o italiano; coraggioso e innamorato – come il protagonista di una fiaba contemporanea – dovrà sopportare il freddo, la solitudine, la strada, la fame e la paura, la fuga dai nemici e la perdita dell’amicizia, per tentare di conoscere la propria identità”.

Aristotele (Stagira 384 A.C., Calcide 322 A.C.) si poneva il problema del linguaggio apofantico, cioè di quel linguaggio in grado di esprimere necessariamente la verità: giunse alla conclusione che ciò sia possibile a patto di rispettare alcune condizioni, racchiuse nel concetto di sillogismo.

L’opera di Giovannesi, dedicata alle giovani generazioni, utilizza moduli del film–verità (primissimi piani, ritmi concitati, tracce sonore in presa diretta) con  intento apparentemente aristotelico: mostrare la “verità vera” su di una condizione o su di un problema sociale. Nel nostro tempo (adesso) temi quali: immigrazione, lavoro, emancipazione ottengono il massimo dell’attenzione, ma inducono a ipotesi teoriche o valutazioni quasi sempre omologate che si rifanno anche, spesso, al facile psicologismo del “trauma” o reclamano la valenza economica e il relativismo culturale; oppure, al contrario, ipotizzano una realtà così aggrovigliata da svalutare ogni possibile risposta.

Proprio rifacendoci a Pier Paolo Pasolini – che tanto si occupò delle borgate, della povertà, della fame, della violenza, delle differenze culturali – ma senza trascurare la psicoanalisi, siamo pronti a spiegare la trama del film secondo un’altra ottica, il cui filo conduttore Giovannesi (inconsciamente, ma l’inconscio parla sempre) consegna attraverso l’inutile episodio del tentativo di seduzione dell’amico egiziano nei confronti di Nader: quella dell’omosessualità rimossa.

Diciamo perciò che l’autentico problema culturale è costituito non già dall’islamismo, ma piuttosto dall’amore sbocciato tra Stefano e Nader: tutti i gesti trasgressivi, che insieme compiono, sono sostitutivi dell’unico gesto trasgressivo che “non possono” compiere. Per identificazione con Stefano, Nader reclama la sua italianità; per “rimuovere” il desiderio sessuale nei confronti di Stefano, egli “deve” necessariamente ed immediatamente far l’amore con Brigitte; per gelosia verso Stefano, accoltella il ragazzo rumeno. Per lo stesso motivo Stefano “deve” avere una ragazza e, per fantasticare l’amore con Nader, arriva a corteggiarne la sorella.

Leggendo le nostre argomentazioni qualcuno potrebbe obiettare che, per lo meno, dovremmo conoscere personalmente i protagonisti della storia: di fatto li conosciamo, anche se con nomi diversi. La maggior parte dei ragazzi (e delle ragazze) esibiscono comportamenti simili a quelli descritti: da sempre la violenza tra pari sostituisce i rapporti omosessuali, a partire da una certa età in avanti, da quando non è più possibile giocare al gioco del dottore.

In ogni caso noi non professiamo il relativismo culturale perché crediamo, piuttosto, alla cultura “tout court” ed ai sentimenti; e crediamo, pure, che gli uomini (e le donne) siano simili.

Tornando al film, il tentativo di narrare la “verità” fallisce per eccesso: troppi episodi si accavallano e aggrovigliano – trattati tutti con lo stesso livello di significatività – e non permettono di  percepire pensieri e sentimenti diversi da aggressività o paura, tradendo un’attenzione troppo scarsa nei confronti dell’universo umano. Per fare un esempio: perché un signore rumeno deve necessariamente pensare di uccidere un ragazzino sedicenne anche se ha ferito un proprio parente? Forse perché i romeni seguono la legge della giungla? O perché nel nostro paese giustizia e solidarietà latitano? O ancora perché l’amore fa perdere la testa? O anche perché c’è il racket della droga e della prostituzione? Un fatto del genere non è per niente ovvio; né la logica assicura che eventi simultanei siano necessariamente collegati.

La regia è di Giovannesi; la sceneggiatura è di Giovannesi e Gravino; le tracce sonore sono di Giovannesi e Moscianese; la fotografia è di Ciprì; il montaggio di Trepiccione.

pietrodesantis

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